Perché le (prime) fragole sono un danno per l’ambiente

FRAGOLE AMBIENTE

Un rosso vivido che nasconde il lato oscuro: le prime fragole arrivate nei nostri supermercati sono dei frutti assetati, coltivati nel Sud della Spagna dove alle denunce ricorrenti per irregolarità lavorative si somma l’impatto ambientale della coltivazione.

Frutto assetato e pozzi illegali

Il mensile dei consumatori tedeschi ÖkoTest ricorda che la regione della Huelva è l’area dove si concentra la principale produzione mondiale di fragole e che in media un chilo di fragole ha bisogno di circa 280 litri di acqua. Peccato che nel sud della Spagna, invece, l’acqua scarseggia. “Il fabbisogno idrico per l’irrigazione delle piantagioni di fragole è così elevato – scrive il mensile – che è necessario scavare pozzi sempre più profondi, molti dei quali illegali. Secondo le stime del Wwf, i campi sono irrigati da 1.000 pozzi illegali. Il ministero dell’Ambiente spagnolo assume circa 500.000 di tali pozzi in tutta la Spagna”. L’impatto ambientale tuttavia non si limita al consumo idrico. Secondo l’Università di Bonn una confezione da 500 grammi produce quasi 400 grammi di anidride carbonica lungo la filiera dalla coltivazione al consumo, e “solo” 140 grammi sono imputabili dal solo trasporto. Se consideriamo le centinaia di chilometri che queste primizie compiono prima di arriavare nei nostri supermercati, è comprensibile quale sia l’impronta ecologica di questa coltura.

La fragola proibita: pesticidi e caporalato

La coltivazione intensiva però non è solo una “minaccia” ambientale: il sistematico ricorso ai pesticidi – soprattutto per le fragole coltivate in serra per prevenire le malattie fungine e il marciume – espone il consumatore a un cocktail di multiresidui davvero preoccupante.

Non è un caso che per il secondo anno di fila la fragola è in testa alla cosiddetta “sporca dozzina” stilata dalla Ong statunitense Ewg, per il numero di campioni contaminati rintracciati. Ma non occorre andare troppo lontano per avere la conferma che la fragola è uno dei frutti più trattati in assoluto: nel numero del Salvagente del maggio 2020 portammo in analisi 20 campioni di fragole (comprese quelle spagnole della Huelva): oltre a sostanze vietate in due campioni, in 6 campioni abbiamo registriamo la presenza contemporanea da 6 fino a 9 molecole diverse.

Oltre alla “chimica” su questo frutto si affacciano anche le ombre dell'”etica”: la filiera della fragola, specie quella spagnola, è spesso protagonista di casi di caporalato e di veri e proprio casi di sfruttamento soprattutto nei confronti delle lavoratrici immigrate.

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“Oro rosso” e sfruttamento femminile

Stefania Prandi, con il libro inchiesta “Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo” (Settenove, 2018), ha denunciato le condizioni drammatiche delle lavoratrici dei campi di Huelva, in Andalusia, dove si produce gran parte delle fragole che si trovano nei supermercati italiani. Solo nella stagione 2018-19, 340mila tonnellate che ne fanno la prima area produttrice in Europa. Qui, tra le distese di serre a perdita d’occhio, che vengono chiamate “il Mar plastico” dai locali, c’è una preponderanza di manodopera femminile, circa il 70-80%.

“Nella filiera della fragola – ci ha raccontato Stefania Prandi nel numero di febbraio – c’è uno sfruttamento di tipo lavorativo e di ricatto sessuale. Le donne vivono per il tempo della raccolta all’interno dell’azienda agricola, parliamo anche di 500 donne, in aree che sono dei veri e propri fortini, circondati da filo spinato, con guardie armate, o in capanni in mezzo alle serre, dove c’è sempre qualcuno che le controlla giorno e notte”. La gran parte della manodopera è composta da donne marocchine che vanno in Andalusia tramite un accordo tra i due paesi e un’agenzia che seleziona la manodopera e la invia nei campi spagnoli, dove può stare solo per il periodo della raccolta. Vengono scelte quasi esclusivamente donne sposate con figli, in modo che ci sia la certezza che tornino indietro alla fine della raccolta. Nel 2019 erano 20mila, con la pandemia un terzo.

Ci sono anche braccianti comunitarie, rumene, bulgare e polacche. Le accomuna l’isolamento: in queste aziende non arriva il trasporto pubblico, non c’è neanche un servizio di taxi, i beni di prima necessità vengono venduti da furgoncini di passaggio. “Le donne – spiega l’autrice dell’inchiesta – hanno raccontato di maltrattamenti fisici, botte e percosse, di cui ho trovato anche riscontri in sentenze, metodi che di fatto servono a controllare la forza lavoro. Loro vengono pagate a giornata, e si crea un sistema di ricatto per cui se fanno qualcosa che non piace ai padroni vengono punite. Durante l’orario di lavoro non è permesso andare in bagno, bere, mangiare, devono mantenere un ritmo considerato produttivo, quindi anche se hanno mal di schiena, parliamo di donne di 55-60 anni, devono comunque sollevare due casse di fragole alla volta. A temperature altissime dentro la serra, attorno ai 45-50 gradi”. A questo si aggiunge l’impossibilità di andare dal medico.
Dopo l’inchiesta, inizialmente pubblicata su Buzzfeed, i sindacati confederali spagnoli hanno minacciato di querelare l’autrice “perché dicevano che quello che avevamo scritto era infamante per la zona. Il territorio si è arricchito molto grazie al business delle fragole”. I nomi delle aziende non sono stati pubblicati ma quelli dei distributori Lidl e Aldi, dove le fragole venivano vendute, sì: entrambe le catene hanno risposto con lettere di intenti in cui promettevano di fare inchieste interne.