Funky Tomato, tra silenzi e prodotti non consegnati, la triste fine del pomodoro anti-caporalato

caporalato

Quando nel 2015 alcuni attivisti anti-caporalato decisero di fondare l’esperienza Funky Tomato, il Salvagente era stato tra i primi a raccontarlo con entusiasmo ai propri lettori: una produzione di sughi di pomodoro che nasceva dal riconoscimento del giusto compenso ai braccianti, molti dei quali migranti prima sfruttati nelle campagne del sud Italia, grazie a un patto di solidarietà con i consumatori disposti a pagare in anticipo il giusto prezzo. Purtroppo a distanza di cinque anni, dopo un cambio di gestione rispetto la primissima fase, di quella bellissima idea restano solo i cocci rappresentati dalla rabbia di alcuni consumatori che accusano Funky Tomato di mancanza di trasparenza e soprattutto, di non aver consegnato i prodotti ordinati. Il Salvagente ha sentito le parti in causa, ricostruendo un quadro fatto di buone intenzioni, comunicazioni opache e gestione fallimentare.

Ordini inevasi da oltre un anno

Ma partiamo dai consumatori. La signora Elena Conega da Lecco, racconta al Salvagente:  “Io, e come me altri privati consumatori, abbiamo dato fiducia al progetto Funky Tomato ma tuttora attendiamo invano risposte sugli ordini incompleti o mai ricevuti. Nel mio caso, a fronte di un pre-acquisto ad agosto 2019, per ottenere la consegna è stato un continuo sollecito di mail e al ricevimento della merce a fine gennaio 2020 l’ordine non era nemmeno completo. Su 100 euro di ordine, mi è stato consegnato il corrispettivo di 80. Ho sospeso le comunicazioni via mail date le circostanze dell’emergenza Covid 19, fiduciosa che nei mesi in cui l’attività agricola era ferma fosse messo in consegna il completamento degli ordini. Fiducia ancora una volta mal riposta. Da poco ho avuto notizia che è successo lo stesso con la produzione di questa estate. Vendita, incasso, nessun prodotto consegnato e chiusura delle comunicazioni”. Elena Conega non è l’unica ad essere passata per un’esperienza simile. Sulla pagina Facebook di Funky Tomato, Elena Morisi scrive: “Io sono ancora in attesa dopo aver acquistato a settembre 2019, ricevuto parte dell’ordine a febbraio 2020 e parte a marzo 2020. Sto ancora aspettando il resto dell’ordine. Capisco tutte le difficoltà ma la mancanza di risposte e comunicazioni è vergognosa”. Sui social i responsabili di Ft non rispondono alle proteste da quasi un anno, mentre il sito è congelato al 2019, e ciò nonostante qualcuno ha continuato a comprare online anche nel 2020. Ma Russo ci assicura che la gestione del sito, curata da terzi, ha creato questo tipo di problema e che i soldi degli acquisti incautamente fatti pochi mesi fa (nonostante lo shop online parli chiaramente di pre-acquisto 2019) sono finiti in un conto già pignorato.

La Fiammante: “Abbiamo interrotto le collaborazioni”

Abbiamo chiesto a due grosse realtà che hanno collaborato con Funky Tomato di fornirci, se possibile, ulteriori informazioni. Francesco Franzese, Ad de La Fiammante, marchio industriale di conserve di pomodoro, ci racconta: “Da un anno e mezzo non lavoriamo con loro, perché abbiamo avuto problemi, stiamo in contenzioso, hanno preso della merce e non l’hanno pagata. Una piccola parte del pomodoro era quello che loro producevano, e poi altro lo compravano dalla nostra filiera etica – abbiamo una serie di certificazioni tra cui la social foot print – e lo rivendevano, con una parte di quegli utili destinati a scopi sociali. Però quando ci siamo accorti che qualcosa non andava, ci siamo fermati, li abbiamo chiamati per capire un attimo, e loro a un certo punto sono scomparsi. Sappiamo che alcuni consumatori hanno pagato e non hanno avuto i loro prodotti”.

Oxfam: abbiamo chiesto di ritirare il nostro logo dal sito

Anche Oxfam, Ong internazionale che si occupa di contrasto alla povertà, ha collaborato con Funky Tomato, ma ci tiene a precisare: “Nell’ambito del lavoro di ricerca e campagna sulle filiere del pomodoro, Oxfam è entrata in contatto con l’esperienza di rete di Funky Tomato, vedendone degli elementi di innovatività e di rispetto dei diritti dei produttori.  A tale proposito ha promosso l’iniziativa, dando disponibilità nel valutare l’esperienza nel suo sviluppo per migliorare i disciplinari e gli standard di sostenibilità.  Oxfam ha ospitato presso i propri due punti vendita di Arezzo e San Casciano i prodotti di Funky Tomato, senza essere coinvolta nella parte commerciale e logistica di cui sono responsabili Funky Tomato srl e Dol srl.  Abbiamo appreso dai canali social che il pre-acquisto, che Oxfam insieme ad altri soggetti ha promosso, ha avuto dei problemi nel soddisfare tutti gli ordini.  Laddove ci è stato segnalato, abbiamo fatto presente la problematica a Funky Tomato e a Dol e abbiamo avuto riscontro che il problema sia stato risolto”.  Non avendo nessun coinvolgimento nella gestione degli ordini di pre-acquisto, Oxfam ha chiesto inoltre alle due società se i problemi segnalati da alcuni utenti sui canali social fossero stati risolti.  “Ci è stato assicurato – continua Oxfam – che gli ordini erano stati in gran parte evasi, anche se in ritardo rispetto alle previsioni iniziali, e che gli ordini non evasi e già pagati sono stati rimborsati.  Non essendoci alcun modo da parte di Oxfam di riscontrare l’esattezza di questa informazione, abbiamo quindi sospeso ogni attività di comunicazione rispetto all’iniziativa e chiesto ai responsabili di Funky Tomato srl di eliminare il nostro logo rispetto a eventuali future iniziative”. Il logo di Oxfam, così come quello de La Fiammante, campeggia ancora sulla Homepage di Ft.

Funky Tomato: “Il nostro modello di responsabilità circolare non è stato capito”

Dopo aver raccolto queste testimonianze, abbiamo contattato Paolo Russo, project manager di Funky Tomato, che racconta la sua versione dei fatti a partire dall’idea fondativa: “Il progetto è un progetto di filiera, un contratto di rete. Essendo degli economisti abbiamo analizzato la filiera. In generale, in termini schematici è come una piramide, i soggetti che stanno in cima per gestire il rischio sfruttano chi sta sotto. Allora noi facciamo una filiera circolare dove tutti i soggetti sono partecipi, stabilendo a monte il prezzo e i rischi, e nel momento in cui c’è un rischio, il soggetto più forte se lo accolla. Questo non è accaduto, dalla distribuzione ai ristoranti, ma non voglio parlar male di nessuno”. Evidentemente, però, questa intenzione di condividere i rischi con tutti, dal consumatore al trasformatore non era chiara a tutti, per esempio non a La Fiammante. “C’era un contratto di rete che loro non hanno firmato, l’obbiettivo era quello di far partecipare la Fiammante alla gestione del rischio. Forse c’è stata approssimazione da entrambe le parti” spiega Russo, che aggiunge: “Il nostro progetto di filiera non è stato capito neanche dai consumatori, perché una persona che pretende un prodotto in un processo dove le cose possono andare male, vuol dire che non ha capito il senso del progetto. Alla base non c’è la pretesa del prodotto, io consumatore non anticipo il denaro per averlo certamente, anticipo il denaro facendo un’opera di bene, in modo tale che tu soggetto promotore del progetto non vada dalla banca e i rischi che hai con lei li faccia ricadere sul bracciante”.

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Le origini del tracollo

Messo in chiaro anche il ruolo che avrebbe dovuto avere il consumatore, il project manager di Funky Tomato racconta come le cose hanno iniziato a mettersi male: “C’è stata una crisi forte del settore agroalimentare, prima dovuta alla saturazione degli elementi. Ogni soggetto apriva 4-5 ristoranti e non li reggeva, e quindi magari ti facevano ordini da 80mila euro non pagati. Poi è arrivata la pandemia e gli ordini e i pagamenti sono precipitati. Gli unici che ci hanno rimesso siamo io e Guido (De Togni, Cultural Manager di Ft, ndr), che con tanto di laurea e altri lavori – io sono un ricercatore e ho un’azienda agricola con cui non ho mai prodotto per Funky Tomato – ci siamo messi per 5 anni dietro a questo progetto per 800 euro al mese. Il problema è che in Italia non c’è una popolazione adesso adatta a percepire modelli alternativi di impresa che non siano quelli medievali, apicali, che noi conosciamo bene”.

Gli errori nella comunicazione

Sia pure composto da una visione del funzionamento dell’economia che non sembra aver funzionato affatto nel mondo reale, lo sfogo di Paolo Russo è quello di una persona che ha profuso impegno in un’impresa che è naufragata nonostante la buona volontà. Ma questo però non giustifica l’atteggiamento di scarsa trasparenza nei confronti dei consumatori arrabbiati per non aver ricevuto il proprio prodotto. Così Russo giustifica i troppi silenzi: “Le persone sono fatte anche di emotività, ci sono momenti in cui si sentono in difficoltà, possono pure scappare dalle cose. Può essere anche questo. Non abbiamo avuto una comunicazione così trasparente perché per noi era molto personale, e abbiamo detto alle persone quando avremo chiare le cose, comunicheremo quello che c’è da comunicare.

La promessa di rimborsare tutti

L’Srl non sta chiudendo perché stiamo aspettando che rientrino i soldi, ma non siamo più operativi da ottobre-novembre del 2019. Siamo falliti e siamo stanchi. In ogni caso, rimborseremo tutti”. Anche nelle avventure che finiscono nella maniera più disastrosa, è importante chiudere con dignità e rispetto per chi ha creduto in un progetto di filiera etica mettendo mano al portafogli.