Scuole aperte solo per gli alunni disabili, ritornano le “classi speciali”?

Il rischio è reale e va per questo azzerato subito. Le ordinanze della regione Campania e della Puglia che, nel prevedere la DaD per la maggior parte degli alunni di tutti i cicli, consentono la didattica in presenza esclusivamente per gli alunni disabili ovvero con disturbi dello spettro autistico, rischia di diventare un boomerang e di far ritornare in voga “le classi speciali”. Un passo indietro che nessuno auspica. Ovvio che non è messa in alcun modo in discussione l’importanza per i bambini disabili, e più in generale per i bambini con un bisogno educativo speciale, di avere più scuola in presenza: è una richiesta sacrosanta dei genitori, è un bisogno dei bambini e un dovere della società e delle istituzioni scolastiche. Quello che invece dobbiamo condannare è il rischio che tutto questo si trasformi in un drastico ridimensionamento di quel concetto tanto caro (quanto importante) che è l’inclusione scolastica.

Gli alunni fragili

Soprattutto perché, come ha spiegato al Salvagente Dario Ianes, docente ordinario di Pedagogia e Didattica Speciale all’Università di Bolzano e co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento, non è questo l’indirizzo del Miur che nel decreto del 7 agosto 2020, tra gli obiettivi da perseguire, parla di “alunni fragili” ricomprendendo sotto questa categoria non solo gli alunni con disabilità o con bisogni educativi speciali, ma anche gli alunni la “cui la fragilità investa condizioni emotive o socio culturali, ancor più nei casi di alunni con disabilità”.

Didattica in presenza, ma non classi speciali

Per tutti questi bambini, il Ministero prevede la didattica in presenza. In che modo? “I docenti curricolari e di sostegno sono in aula e accolgono piccoli gruppi eterogenei di alunni – continua Ianes – mentre sono collegati on line con gli altri bambini. In questo modo si raggiunge il duplice obiettivo: gli alunni fragili seguono le lezioni con i giusti adattamenti e non perdono la socialità di cui hanno bisogno”.  Certo è complicato – assicura Ianes – ma è un obiettivo che si può raggiungere. Ci sarebbe anche un’altra opzione – aggiunge il professore – ovvero quello di consentire ad un insegnante di sostegno, in accordo con le famiglie, di raggiungere il domicilio dell’alunno: una soluzione che consentirebbe al bambino di interagire con la classe (attraverso l’aiuto del docente) ma nulla farebbe per garantire l’inclusione.

Inclusione, un concetto che ha radici lontane

Siamo certi, comunque, che la ratio della previsione del Miur è proprio quella di garantire l’inclusione scolastica perché è concetto a cui la nostra malandata scuola crede profondamente. Non a caso siamo stati tra i primi, nel 1977, a introdurre la a tutela dei soggetti portatori di handicap. La legge 224 del 18 agosto, la norma non solo prevedeva “la prestazione di insegnanti specializzati assegnati” ma, congiuntamente assicurava “la necessaria integrazione specialistica, il servizio sociopsicopedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive, competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio scolastico distrettuale”. Poi ci sono state le “Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità” emanate dal Ministero dell’Istruzione Mariastella Gelmini nel 2009; la legge 8 ottobre 2010 n° 170/10 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale N. 244) recante “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento” e le “Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento” allegate al decreto ministeriale 12 luglio 2011, relative all’inclusione scolastica degli alunni con DSA: tutti questi provvedimenti hanno fatto del nostro Paese un modello assolutamente “speciale” di inclusione.

Aprile 2020, 1 alunno con disabilità su 3 fuori dalla DaD

Con queste premesse era doveroso dare una risposta alle tante famiglie che in questi lunghi mesi di didattica a distanza si sono sentite abbandonate. E non è stata solo una sensazione. Un questionario reso noto a maggio di quest’anno – dopo quasi 3 mesi di didattica a distanza – e condotto su un campione di oltre 3mila docenti rappresentativi di tutto il tessuto scolastico ha di fatto messo nero su bianco la giusta preoccupazione dei genitori: un alunno con disabilità su tre è stato di fatto escluso dalla Didattica a Distanza: o perché si è rivelata inefficace (26,2%) o perché la DaD non era nemmeno ipotizzabile (10,3%). Gli altri sono ben integrati nelle pratiche di DaD (nel 44% dei casi), oppure assistiti con DaD individualizzata (19%).

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E’ per rispondere a questo disagio che la tendenza delle regioni (la Campania ad esempio) dove il numero dei contagi ha reso necessaria l’attivazione della didattica a distanza, è quella di lasciare gli istituti aperti proprio per i bambini che hanno un bisogno educativo speciale. Il rischio, però, è che da un buon proposito nasca un arretramento nella cultura dell’inclusione. E questo no, non possiamo e non dobbiamo permetterlo.