L’etichetta Msc garantisce davvero una pesca sostenibile?

Non è la prima volta che Msc, il Marine stewardship council, il marchio di certificazione della pesca sostenibile probabilmente più utilizzato al mondo, finisce sotto il tiro incrociato di ambientalisti e animalisti. Era successo nel 2018 quando 66 stakeholders (tra cui associazioni come Greenpeace) in una lettera indirizzata al presidente Werner Kiene avevano messo nero su bianco le loro perplessità. Scrivevano all’epoca: “Il programma non si prende cura delle specie protette che non sono l’obiettivo primario dell’attività di pesca”. In altre parole, secondo i denuncianti, Msc non fa abbastanza per tutelare l’ecosistema marino e in particolare i mammiferi del mare.

Altro che pesca a basso impatto

Le cose non sono migliorate evidentemente, visto che ora le accuse arrivano da Bloom, Ong francese che ha pubblicato l’inganno dell’etichetta Msc una lunga ricerca condotta con la New York University (Stati Uniti) e Dalhousie (Canada) e pubblicata e pubblicata sul giornale scientifico Plos One, che dimostrerebbe che la pesca certificata MSC è principalmente distruttiva e industriale, a differenza della comunicazione schierato dalla MSC.
“ I metodi di pesca più distruttivi al mondo, come le reti a strascico e le draghe, rappresentano l’83% delle catture certificate MSC tra il 2009 e il 2017” si legge nel rapporto, “ma solo il 32% delle sue illustrazioni fotografiche su lo stesso periodo. Al contrario, la pesca su piccola scala e a basso impatto ha rappresentato solo il 7% dei volumi certificati tra il 2009 e il 2017, ma il 47% delle illustrazioni”. E quando si parla di barche grandi, spiegano dall’Ong, si intendono “oltre 12 metri, spesso 40, 60 o 8°, perfino 144 metri!. E utilizzano attrezzi pescherecci “attivi” ad alto impatto come reti a strascico e draghe”.

La difesa di Msc

Accuse pesanti che non hanno lasciato indifferente il Marine Stewardship Council, che ha immediatamente reagito. “Questa analisi si basa su un corpus di fotografie e mezzi di comunicazione, che non è un indicatore rilevante per valutare un programma di certificazione scientifica”, ha spiegato in un comunicato Msc. E ha aggiunto: “Il nostro obiettivo è soprattutto aiutare i professionisti a muoversi verso una pesca sostenibile. Per questo lavoriamo con la pesca di tutte le dimensioni: dalla più piccola alla più grande”.

A che serve un’etichetta che certifica la pesca industriale invece di rendere chiara ai consumatori un’origine su piccola scala e minore impatto ambientale, si chiedeva Bloom?

Msc non si sottrae: “Tutti gli attrezzi da pesca possono avere un impatto negativo sulla biodiversità marina se mal gestiti. L’importante è assicurarsi che qualunque sia l’attrezzatura e le dimensioni della barca, sia gestita e utilizzata in modo da rispettare gli stock, gli habitat e tutte le specie marine circostanti”.

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Bloom: e sareste una Ong scientifica?

Giustificazioni e spiegazioni che non hanno convinto per nulla Bloom che parla di un inganno nell’inganno. “Sarebbe stato sufficiente che Msc avesse letto la metodologia del nostro studio o la sua sintesi per capire – senza alcuna possibile ambiguità – che l’analisi delle fotografie e dei mezzi di comunicazione costituiva solo una piccola parte del nostro studio. Le false affermazioni di Msc portano quindi alla luce o la sua incompetenza o il suo cinismo assoluto, estremamente preoccupante per una struttura che si definisce “Ong scientifica” e che già certifica 15 % delle catture mondiali e mira a certificarne il 30% entro il 2030”.

La battaglia continua, c’è da scommettere. Ai consumatori, certamente smarriti nella guerra di etichetta, il consiglio e non fermarsi ai marchi e vigilare sui metodi di pesca più protettivi (lenze, ami e reti da imbrocco, nasse, palangra); chi li utilizza non manca di metterli in evidenza sull’etichetta del pesce, tanto fresco che congelato.