Un nuovo caso di contagi Covid nei macelli. In tutto il mondo il coronavirus sta sconvolgendo allevamenti e macelli e l’Italia non fa certo eccezione. Ieri è toccato alla Aia di Vazzola (Treviso) che, a quanto ha riportato l’Ansa, ha deciso la riduzione della produzione del 50%, il distanziamento fra le postazioni operative e la diminuzione del numero di lavoratori per turno. Decisioni assunte nel corso di un vertice convocato dalla Prefettura di Treviso con organizzazioni sindacali, autorità sanitarie e municipali di Vazzola (Treviso) per affrontare la gestione del focolaio di contagi Covid-19 fra i dipendenti dello stabilimento agroalimentare Aia.
Nel sito, in cui operano 700 addetti fra operatori diretti e maestranze dell’indotto, ad oggi risultano 182 casi di positività sui 560 test eseguiti (le persone mancanti sono assenti in generale per ferie), tutti asintomatici e in regime di quarantena.
La prossima settimana sarà eseguito un nuovo screening con l’utilizzo delle nuove procedure rapide, nel frattempo è stata stabilita la prosecuzione della produzione contro una ipotesi di chiusura dello stabilimento che era stata ventilata nelle ultime ore. L’interruzione dell’attività di macellazione, è stato infatti sottolineato, comporterebbe l’abbattimento di circa 1,5 milioni di capi di pollame, evento che avrebbe ripercussioni non semplici sul fronte igienico sanitario.
Tanti precedenti in tutto il mondo
Tre mesi fa, secondo gli ultimi dati disponibili, si contavano circa 5mila casi di contagi nei macelli statunitensi, tanto che il presidente Trump aveva usato i poteri di guerra del Defense Production Act per firmare un ordine esecutivo per riaprire o mantenere aperti i grandi impianti di macellazione delle carni. In Germania nello stesso periodo era di 800 il numero dei positivi al Covid-19 tra gli addetti ai mattatoi e più di 100 in Francia come. In Italia, a Palo del Colle in provincia di Bari per due settimane è stato chiuso lo stabilimento Siciliani dopo che 71 impiegati sono risultati positivi al Settanta contagi e duecento in quarantena anche in cinque macelli nel mantovano, lo scorso luglio.
“Gli animali da fattoria non sono veicolo”
Esiste un nesso tra questo tipo di lavorazione ed esposizione al contagio da Covid-19? Le conoscenze scientifiche al momento disponibili tendono ad escludere un contagio dalla carne cruda e cotta all’uomo, come anche dalle carcasse all’essere umano. “Attualmente non ci sono prove scientifiche sulla trasmissione della SARS-CoV-2 da un animale da compagnia o animale da fattoria infetto agli esseri umani”, ha spiegato all’inizio di marzo l’Agenzia francese di sicurezza sanitaria di cibo, ambiente e lavoro, una posizione riaffermata in un parere aggiornato alla fine di aprile.
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La cottura a 63° per 4 minuti “abbatte” il rischio
La stessa Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, per bocca di Marta Hugas, direttore scientifico dell’Autorità, ha smentito: “Attualmente non ci sono prove che il cibo sia fonte o via di trasmissione probabile del coronavirus. Le esperienze fatte con precedenti focolai epidemici riconducibili ai coronavirus, come il coronavirus della sindrome respiratoria acuta grave (Sars) e il coronavirus della sindrome respiratoria mediorientale (Mers), evidenziano che non si è verificata trasmissione tramite il consumo di cibi. Al momento non ci sono prove che il coronavirus sia diverso in nessun modo”.
Secondo Anses, “in base allo stato attuale delle conoscenze, è possibile escludere la trasmissione del virus direttamente attraverso il tratto digestivo. Infatti, mentre il virus è stato osservato nelle feci dei pazienti, probabilmente era dovuto alla circolazione del virus nel sangue a seguito di infezione respiratoria piuttosto che attraverso il tratto digestivo”. Tuttavia, la possibilità che il tratto respiratorio venga infettato durante la masticazione non può essere completamente esclusa. “Come con altri coronavirus noti, questo virus è sensibile alle temperature di cottura. Il trattamento termico a 63° C per 4 minuti (temperatura utilizzata durante la preparazione di cibi caldi in catering collettivi, come le mense) può quindi ridurre la contaminazione di un prodotto alimentare di 10mila volte” spiega l’Anses.
Grasselli, Sivemp: “Non c’è un caso macelli”
Ma allora da dove può nascere il problema? Negli Usa si è puntato il dito – forse troppo frettolosamente – sulle condizioni abitative e igienico sanitarie dei lavoratori dei lavoratori, in gran parte afroamericani. Ma il contesto lavorativo può incidere? Lo abbiamo chiesto lo scorso maggio a Aldo Grasselli, presidente Sivemp, il Sindacato italiano veterinari di medicina pubblica: “Gli impianti di macellazione per definizione sono ‘Industrie insalubri di prima categoria’ e quindi luoghi molto esposti alle contaminazioni e per questo da sempre le norme e le prassi igienico-sanitarie devono essere rispettate. A mio parere non ci sono focolai nei macelli ma tra gli addetti a questo tipo di lavorazione. Quindi non parlerei di un ‘caso macelli’ tantomeno in Italia dove si è registrato un caso in provincia di Bari tra gli addetti alla lavorazione (all’epoca dell’intervista, poi ci sono stati altri casi, ndr). Le situazioni registrate all’estero a mio giudizio andrebbero approfondite conducendo, qualora i dati indicassero una vera emergenza, due tipi di indagine epidemiologica sui lavoratori – e il contesto socio-sanitario in cui vivono – e uno nel contesto di lavoro”.