In un periodo in cui affidiamo le nostre speranze – oltre che nella capacità di sopportazione eroica di medici e infermieri – alla capacità della scienza di sviluppare farmaci o addirittura vaccini in grado di toglierci dall’incubo del coronavirus, è possibile che dimentichiamo che quella farmaceutica è una lobby che ha nel suo Dna il gene della massimizzazione dei profitti.
Eppure, nel caos della pandemia globale, basterebbe un’occhiata ai titoli delle borse per capire che uno dei pochi settori che non crolla (tutt’altro) è proprio quello di Big Pharma.
Poco male, a condizione che ci fornisca i rimedi per sconfiggere il virus, verrebbe da dire.
Un’analisi un po’ più critica – se volete controcorrente, certamente scomoda – la fa Sharon Lerner su the Intercept, partendo dalla situazione degli Stati Uniti di Trump.
“La capacità di fare soldi con i prodotti farmaceutici è già straordinariamente grande negli Stati Uniti – scrive la Lerner – paese dove mancano controlli di base sui prezzi e viene data alle compagnie farmaceutiche più libertà nel fissare i prezzi dei loro prodotti rispetto a qualsiasi altra parte del mondo. Durante l’attuale crisi, i produttori farmaceutici potrebbero avere ancora più margine di manovra del solito (…) in un pacchetto di spesa per coronavirus da $ 8,3 miliardi, passato la scorsa settimana, per massimizzare i loro profitti dalla pandemia”.
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Qualcuno, evidentemente, si è posto il problema delle condizioni da porre in un caso del genere prima di finanziare a pioggi le industrie dei farmaci. A febbraio Jan Schakowsky e altri membri della Camera hanno scritto a Trump chiedendo di “assicurare che qualsiasi vaccino o trattamento sviluppato con i dollari dei contribuenti statunitensi sia accessibile, disponibile e conveniente”, un obiettivo che hanno affermato che non potrebbe essere soddisfatto “se le società farmaceutiche sono autorizzate a stabilire i prezzi e determinare la distribuzione, ponendo il profitto al di sopra delle priorità sanitarie”.
Una preoccupazione legittima, rinviata al mittente dai repubblicani che si sono opposti all’aggiunta di un vincolo al disegno di legge che limiterebbe la capacità del settore di trarre profitto, sostenendo che avrebbe soffocato la ricerca e l’innovazione. Morale della favola: il pacchetto di aiuti finali non solo ha omesso qualunque limite ai diritti di proprietà intellettuale dei produttori di farmaci, ma ha specificamente vietato al governo federale di intraprendere qualsiasi azione se teme che i trattamenti o i vaccini sviluppati con fondi pubblici abbiano un prezzo troppo alto.
La verità è che trarre profitto dagli investimenti pubblici è sempre un affare per l’industria farmaceutica, scrive la Lerner, ricordando che dagli anni ’30, il National Institutes of Health ha investito nella ricerca circa 900 miliardi di dollari che le compagnie farmaceutiche hanno usato per brevettare i farmaci di marca. Ogni singolo farmaco approvato dalla Food and Drug Administration tra il 2010 e il 2016 riguardava ricerche finanziate con dollari delle tasse attraverso l’NIH, secondo il gruppo di patrocinio Patients for Affordable Drugs.
Tra i farmaci che sono stati sviluppati con alcuni fondi pubblici e sono diventati enormi guadagni per le aziende private ci sono il farmaco per l’HIV AZT e il trattamento del cancro Kymriah, che Novartis ora vende per $ 475.000. Il farmaco antivirale sofosbuvir, utilizzato per il trattamento dell’epatite C, ricorda Porter a the Intercept, deriva da ricerche chiave finanziate dal National Institutes of Health. Quel farmaco è ora di proprietà di Gilead Sciences, che fa pagare $ 1.000 per pillola e Gilead ha guadagnato $ 44 miliardi dal farmaco durante i suoi primi tre anni sul mercato.
“Non sarebbe bello che alcuni dei profitti derivanti da quei medicinali potessero tornare alla ricerca pubblica del NIH?” chiede Gerald Posner, autore del libro “Pharma: Greed, Lies, and the Poisoning of America (Farmaci: avidità, bugie e avvelenamento dell’America).
Niente da fare, ricostruisce la giornalista, i profitti hanno finanziato enormi bonus per i dirigenti delle compagnie farmaceutiche e la commercializzazione aggressiva di medicinali ai consumatori. Sono stati inoltre utilizzati per aumentare ulteriormente la redditività del settore farmaceutico. Secondo i calcoli di Axios, le compagnie farmaceutiche realizzano il 63 percento dei profitti totali dell’assistenza sanitaria negli Stati Uniti, in parte a causa del successo dei loro sforzi di lobby. Nel 2019, l’industria farmaceutica ha speso $ 295 milioni in attività di lobbying, molto più di qualsiasi altro settore negli Stati Uniti. È quasi il doppio dell’altro più grande spender – il settore dell’elettronica, manifatturiero e delle apparecchiature – e ben più del doppio rispetto a petrolio e gas.
Scrive la Lerner: “Diverse aziende, tra cui Johnson & Johnson, DiaSorin Molecular e QIAGEN hanno chiarito che stanno ricevendo finanziamenti dal Dipartimento della sanità e dei servizi umani per gli sforzi relativi alla pandemia, ma non è chiaro se Eli Lilly e Gilead Sciences stiano usando i soldi del governo per il loro lavoro sul virus. Ad oggi, HHS non ha pubblicato un elenco di destinatari delle sovvenzioni. E secondo Reuters, l’amministrazione Trump ha detto ai principali funzionari sanitari di trattare le loro discussioni sul coronavirus come ‘top secret’”.
Gli ex lobbisti di punta di Eli Lilly e Gilead – ricorda la giornalista – ora fanno parte della Task Force del Coronavirus della Casa Bianca. Azar è stato direttore delle operazioni statunitensi per Eli Lilly e ha fatto pressioni per la società, mentre Joe Grogan, che ora è direttore del Domestic Policy Council, è stato il principale lobbista di Gilead Sciences.