Vivo in una cittadina a pochi chilometri da Parigi e sono in quarantena con la mia famiglia: niente scuola, feste, sport per le mie bambine di 10 e quasi 4 anni, telelavoro per mio marito. Come noi altre decine di famiglie italiane che hanno soggiornato o appena solo transitato da Lombardia o Veneto nei giorni scorsi. Già, le zone a rischio Coronavirus.
Siamo in coda nell’informativa che ci hanno inviato (che parla di Cina – Hong-Kong – Corea del Sud – Macao – Singapore – Iran – Veneto – Lombardia – e ora anche Emilia-Romagna), ma ci siamo.
Chi è rientrato da queste regioni deve stare a casa per 14 giorni dalla data del rientro in terra francese, misurare la temperatura 2 volte al giorno, non frequentare luoghi sensibili e affollati, se non con la mascherina di protezione, e ovviamente chiamare il numero per le urgenze in caso di comparsa di sintomi sospetti.
Gli italiani guardati con sospetto
Io ho ricevuto email dalla scuola, dal Comune e dal circolo del tennis (non scherzo). Sospeso il catechismo degli italiani e la festa di Carnevale. E noi ubbidiamo rigorosamente.
Sia chiaro, in una situazione come questa ritengo sia giusto agire con la massima prudenza e non contesto le misure messe in atto. Se l’isolamento può contribuire a frenare un’epidemia, il disagio che provo nell’essere guardata con un pò di sospetto dal vicino di casa me lo tengo per me.
So che la mia colf (francese) non si fa sentire da giorni perché ha paura di venire a casa mia: lunedì scorso mi ha detto di avere l’auto dal meccanico e che non si sa quanto ci sarebbe voluto per riparare il guasto. Mi spiace, torna quella sensazione di disagio, glielo avrei detto io stessa di non venire per rispettare le consegne del governo francese. Non pensavo ci fosse bisogno di tirare in ballo un guasto dell’auto.
E non è che tra compatrioti vada molto meglio: non credo di aver mai ricevuto tanti messaggi per sapere come stanno le bambine, e tuo marito che dice, e tu come stai, e dove sei stata esattamente a sciare, e con chi eri? Che poi – a dirla tutta – noi siamo stati in Trentino, per cui saremmo pure fuori dall’ordinanza restrittiva, ma… C’è un ma: mio marito, per lavoro, è stato un giorno a Milano, e zac… quarantena per tutti.
E sì, lo ripeto, la cosa mi mette a disagio. Esco il meno possibile, alla cassa del supermercato non apro bocca per non tradirmi, e ormai capisco profondamente “il cinese” di qualche settimana fa.
Siamo tutti “cinesi”
Sì, “il cinese”, generico, tutti i cinesi di qualunque zona, come quelli nati in Italia e mai stati in Cina, evitati, guardati male, insultati, in quei giorni in cui era facile dare la colpa tutta a loro.
Ora, in un certo senso, tocca all’“italiano”, anche qui generico. Non importa che tu sia di Roma o di Palermo, di Monza o di Cosenza, di Napoli o di Torino. Non importa se non ti sei mosso dalla Francia (e quindi non sei in quarantena). In questo momento, qui, siamo tutti e solo “italiani”, un potenziale pericolo per la salute pubblica.
Le mie figlie frequentano una scuola internazionale, ci sono bambini di 14 nazionalità diverse, siamo abituati alla diversità ma lunedì scorso, sicuramente complice il caos che si è creato nelle prime ore dell’emergenza scoppiata in Italia, qualche episodio spiacevole c’è stato: qualche bambino italiano è stato additato come portatore di malattie, ad altri è stato vietato di fare la ricreazione, ad uno pare abbiano imposto una mascherina senza tanti convenevoli. Per mia figlia, assente fin da lunedì, non vi racconto cosa è stato detto…
Adesso siamo qui, tutti a casa appassionatamente attorno ad un puzzle da 3.000 pezzi mica facile da fare. Ma tanto abbiamo tempo.