Philip Morris, British American Tobacco e Imperial Brands, acquistano foglie che potrebbero essere state raccolte da migranti africani sfruttati in Italia. L’accusa, che mette ancora una volta al centro dell’attenzione caporalato e lavoro nero nelle nostre campagne, arriva dal giornale inglese Guardian, che all’industria del tabacco italiana ha dedicato un’inchiesta durata tre anni.  “I lavoratori, compresi i bambini, hanno dichiarato di essere stati costretti a lavorare fino a 12 ore al giorno senza contratti o sufficienti attrezzature sanitarie e di sicurezza, in Campania, una regione che produce più di un terzo del tabacco italiano. Alcuni lavoratori hanno detto che sono stati pagati circa tre euro l’ora” scrivono Luca Munzi e Lorenzo Tondo, e non è difficile crederci, visto i tanti scandali legati al lavoro schiavile nei campi italiani.
I numeri del mercato italiano
Philip Morris, British American Tobacco e Imperial Brands dominano il mercato italiano del tabacco, e tutti dai produttori locali vendono a loro. Secondo un rapporto interno dell’organizzazione degli agricoltori ONT Italia, visto dal Guardian e confermato da un documento dell’European Leaf Tobacco Interbranch, le aziende hanno acquistato tre quinti del tabacco italiano nel 2017 (Philip Morris da sola ne ha comprato il 40%). L’Italia è il principale produttore di tabacco dell’UE. Nel 2017, il settore aveva un valore di 149 milioni di euro.
Il gap tra le carte e la realtÃ
Il problema, in questo caso, sembra essere la distanza che c’è tra carte e sostanza delle cose: “Tutte le multinazionali hanno detto di acquistare da fornitori che operano secondo un rigido codice di condotta per assicurare un trattamento equo dei lavoratori”. Eppure, nonostante esistesse un complesso sistema di garanzie e salvaguardie per i lavoratori del tabacco, più di 20 richiedenti asilo che hanno parlato con il Guardian, inclusi 10 che avevano lavorato nei campi di tabacco durante la stagione 2018, hanno riferito violazioni dei diritti e mancanza di attrezzature di sicurezza. Gli intervistati hanno dichiarato di non avere contratti di lavoro, di essere retribuiti in base agli standard legali e di dover lavorare fino a 12 ore di lavoro al giorno. Hanno anche detto di non avere accesso all’acqua pulita e hanno subito abusi verbali e discriminazioni razziali da parte dei padroni. Due intervistati erano minorenni e impiegati in lavori pericolosi.
Le storie dei lavoratori
Didier, nato e cresciuto in Costa d’Avorio, è arrivato in Italia via Libia. Di recente ha compiuto 18 anni, ma aveva 17 anni quando, la scorsa primavera, un coltivatore di tabacco a Capua Vetere, vicino alla città di Caserta, gli offrì lavoro nei suoi campi. “Mi sono svegliato alle 4 del mattino. Abbiamo iniziato alle 6 del mattino “, ha detto. “Il lavoro è stato estenuante. Faceva molto caldo all’interno della serra e non avevamo contratti. ” Alex, del Ghana, un altro minore che lavorava nella stessa zona, ha detto che è stato costretto a lavorare da 10 a 12 ore al giorno. “Se sei stanco o no, dovresti lavorare”, altrimenti “perdi il lavoro”. Alex ha detto che non gli sono stati dati guanti o indumenti da lavoro per proteggerlo dalla nicotina contenuta nelle foglie o dai pesticidi. Ha anche detto che quando lavorava senza guanti sentiva “una malattia come febbre, come la malaria, o mal di testa”. E infatti, il contatto diretto può portare all’avvelenamento da nicotina. La maggior parte dei migranti ha dichiarato di aver lavorato senza guanti.
3 euro all’ora
Il capitolo su come vengono reclutati e quanto vengono pagati conferma l’enorme problema del caporalato: “I migranti hanno dichiarato di essere stati assunti di solito nelle rotatorie lungo le strade principali della provincia di Caserta. I lavoratori che hanno parlato con il Guardian hanno affermato di non avere contratti e di aver pagato metà del salario minimo. Il più guadagnato tra  20 e 30 euro al giorno, piuttosto che il minimo di 42 euro”. Tre euro l’ora per un lavoro massacrante e senza le minime garanzie di sicurezza.
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Multinazionali e associazioni si difendono
Le multinazionali del tabacco hanno investito miliardi di euro nel settore in Italia, e hanno firmato accordi con il ministero dell’agricoltura e le associazioni degli agricoltori, come la Coldiretti. La maggior parte del tabacco venduto alle multinazionali viene coltivato in Campania. Un accordo concordato l’anno scorso tra l’Organizzazione Interprofessionale Tabacco Italia (OITI), un’organizzazione di agricoltori e il ministero dell’agricoltura ha portato all’introduzione di un codice di condotta nell’industria del tabacco, compresa la protezione della salute dei lavoratori, e una strategia nazionale ridurre l’impatto ambientale. Ma l’anno scorso, scrive il Guardian, l’OITI è stato costretto a riconoscere che “gli abusi sul luogo di lavoro spesso hanno cause sistemiche” e che “soluzioni a lungo termine per affrontare questi problemi richiedono l’impegno serio e duraturo di tutti gli attori della filiera, insieme a quello del governo e altre parti coinvolte “.
Il grande non detto
Di fronte alle accuse del Guardian, i responsabili dei tre colossi del tabacco ripetono tutti lo stesso schema: investiamo per la sicurezza dei lavoratori, chiediamo che i nostri fornitori rispettino la legge, se troviamo qualcosa che non va agiamo. Nessuna parola però sul fatto che spesso a monte dello sfruttamento dei lavoratori vi è il basso prezzo conferito ai fornitori, che rende impossibile in pratica standard dignitosi per i lavoratori.