Alcuni anni fa sui social girava un video che mostrava come raschiando la buccia di una mela veniva giù una specie di cera che una volta bruciata produceva un odore di paraffina. Era una bufala, ma dato che tra miti e realtà le sostanze presenti sulla superficie di questo frutto destano preoccupazione, come dimostra il test di copertina del nuovo numero del Salvagente, abbiamo interpellato due esperti in materia.
Rolando Manfredini, capo area Sicurezza alimentare della Coldiretti è sereno: “Nelle mele italiane i trattamenti postraccolta non si fanno più. Niente cerature, niente morfolina, un funcigida che veniva associato alla cera. Quello che si può trovare sulla buccia della mela sono non tanto i metalli pesanti quanto i residui di pesticidi”.
Esattamente quello che abbiamo trovato noi, analizzando 22 mele vendute da supermercati, discount, negozi bio, perfino fast food come McDonald’s. In qualche caso perfino 5 sostanze diverse sullo stesso frutto.
Dal punto di vista della legge, nella Ue gli additivi ammessi per la ceratura delle mele sono cera d’api, cera carnauba, cera di candelilla, gommalacca, tutti naturali. Sarebbe buona cosa se fossero indicati in etichetta, ma dato che l’obbligo non c’è, al contrario degli agrumi, difficile che li trovate. “La cera – continua Manfredini – veniva usata per motivi prettamente estetici, e poi venivano incorporati fungicidi che si sono rivelati inefficaci. Oggi la conservazione delle mele è quasi sempre in atmosfera controllata”.
Questo in Italia, ma per quanto il nostro mercato delle mele sia prevalentemente nazionale (solo il 7-8% del prodotto è importanto), non è da escludere che il frutto che viene dall’estero possa contenere sostanze pericolose. “Secondo noi – aggiunge Manfredini – ci sono residui di trattamenti post raccolta, utilizzati soprattutto nei viaggi lunghi per la conservazione. Ad esempio, il tiabendazolo, che si usa soprattutto su agrumi e banane, che nella Ue è vietato”.
Il responsabile della sicurezza alimentare di Coldiretti rassicura sui pesticidi: “Se comparati con quelle straniere sulle mele italiane sono molto bassi” aggiungendo che “negli ultimi anni le tecniche d’intervento sono molto mirate”.
Meno ottimista è Franco Ferroni, responsabile Agricoltura e biodiversità Wwf Italia: “I meleti arrivano ad avere anche 40-50 trattamenti durante il ciclo produttivo, di solito da aprile fino a fine settembre. Tanto che lo scorso anno i cittadini delle province di Trento e Bolzano hanno organizzato una marcia contro i pesticidi”.
La Val di Non, territorio di produzione intensiva di mele, è insieme all’area del prosecco nel triveneto, quelle del viterbese dove si coltivano nocciole e il pistoiese per i vivai, una delle zone in cui i residenti soffrono di più la vicinanza di coltivazioni industriali. Tanto da aver presentato alla Camera una petizione firmata da 25mila persone nata da un comitato di cittadini che si coordina tramite un gruppo facebook.
“La petizione chiede alla vigilia della revisione del Piano nazionale di azione sui pesticidi, che siano fissati dei limiti certi rispetto le abitazioni dalle aree coltivate in maniera intensiva” spiega Ferroni. “Paradossalmente al momento non esiste nulla del genere, così non ci sono obblighi riguardo all’informazione che i cittadini dovrebbero ricevere sia sui giorni e sia sugli orari delle irrorazioni sia sul tipo di sostanze e sulla pericolosità”. Oggi, invece, mentre l’agricoltore è tenuto a tutelare la propria salute, con molte precauzioni obbligatorie per legge, il cittadino contaminato accidentalmente è in balia di sé stesso. E senza alcuna informazione.