Combattere i tumori studiando la resistenza di popolazioni sherpa e tibetane alle elevate altitudini. È quanto scoperto dalla ricerca coordinata da Marco Sazzini, antropologo molecolare dell’Università di Bologna, e pubblicata su Genome Biology and Evolution che ha indagato l’ipossia, ovvero la carenza di ossigeno sui tessuti degli organismi, condizione tipica degli sherpa, ma anche caratteristica degli organismi affetti da tumori e da altre patologie. La ricerca è stata condotta da vari studiosi del dipartimento BiGeA dell’Università di Bologna e finanziata dalla Commissione europea nell’ambito del progetto Erc Langelin, oltre che da fondi del National Institutes of Health dell’Università di Chicago.
Nello specifico, è stato studiato il Dna di popolazioni tibetane e di soggetti di etnia sherpa che riescono a vivere oltre i 4mila metri senza subire gli effetti nocivi conseguenti di norma dalla carenza di ossigeno, che a certe altitudini è anche la metà di quello di cui comunemente gli esseri umani hanno bisogno per vivere. “I popoli che vivono sull’altopiano tibetano e le comunità di etnia sherpa, che risiedono nelle valli di alta quota nel versante nepalese dell’Himalaya, sono tra gli esempi più rappresentativi di come la specie umana sia stata capace di adattarsi ad ambienti molto diversi tra loro”, spiega Sazzini.
In passato erano già stati isolati due geni di queste popolazioni, le cui modificazioni erano legate a un “meccanismo di difesa nei confronti del cosiddetto mal di montagna, una patologia pericolosa che può manifestarsi quando ci si trova in ambienti con carenza di ossigeno”, fa sapere il coordinatore del progetto. Ma questi studi spiegavano solo in parte il processo di adattamento, perché non era ancora chiaro come quelle popolazioni fossero in grado di garantire alle proprie cellule l’ossigeno necessario a vivere e riprodursi.
Oggi, la ricerca condotta dal Dipartimento bolognese ha preso in considerazione l’intero genoma di un individuo di etnia sherpa proveniente dalla Rolwaling Valley – valle nepalese che si trova sul versante sud dell’Himalaya – e di alcuni altri individui provenienti dall’altopiano tibetano; così si potuto verificare che ciascuno dei tanti geni contribuisce ai processi di adattamento all’ipossia.
“Quello che emerge dal nostro studio – chiarisce Sazzini – è un modello poligenico, che mostra come sia stata la combinazione di varianti distribuite su più geni ad aver permesso l’evoluzione di un fenotipo così complesso come quello dei popoli di alta quota”. In particolare, le varianti genetiche individuate dai ricercatori sono collegate ad una maggiore efficienza dei processi di angiogenesi, ovvero di formazione e proliferazione dei vasi sanguigni: ciò fa sì che i tessuti siano meglio irrorati perché il volume di sangue in circolazione al loro interno è maggiore rispetto a quello che passa nei tessuti di individui che vivono a bassa quota. “La presenza di questo complesso di varianti genetiche – continua il ricercatore – rende possibile un trasporto di ossigeno ottimale nell’organismo dei popoli tibetani e sherpa, pur in presenza di una quantità di emoglobina e globuli rossi uguale o addirittura inferiore a quella osservabile in soggetti non geneticamente adattati all’alta quota”.
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L’importanza di queste scoperte, dunque, potrà rivelarsi utile anche in ambito biomedico, perché grazie ad esse si potrebbero individuare target terapeutici adatti a combattere patologie – tra cui i tumori – che mostrano proprio l’ipossia come caratteristica dei tessuti colpiti.