Nel 2015 abbiamo prodotto 4.398.326 tonnellate di grano duro e ne abbiamo importate 2.357.241, di cui 1.656.375 solo da Usa e Canada; abbiamo poi prodotto 2.996.168 tonnellate di grano tenero e ne abbiamo importate 4.324.377, di cui 281.730 dal Canada e 174.353 dagli Usa. Il dato potrebbe passare sotto traccia se non fosse che in queste zone, dove il clima è freddo e le temperature scendono notevolmente in inverno, è diffusa il preharvest, una tecnica di produzione che utilizza il glifosato come disseccante e non propriamente come erbicida. “Terribile – tuona Giovanni Dinelli, professore ordinario alla facoltà di Agraria dell’Università di Bologna – perché si tratta di una tecnica che prevede l’utilizzo di questa sostanza quando il seme è già formato e quindi in grado di assorbirla direttamente”. L’indicazione dell’origine in etichetta voluta dai ministri Martina e Calenda e che ha avviato ieri il suo iter di approvazione a Bruxelles, consentirebbe di scegliere spaghetti non sottoposti al preharvest.
Pratica terribile, dunque, e pericolosa dato che rischia di far trovare più residui nella semola. La domanda sorge spontanea: perché fare una cosa del genere? La risposta è banale: per evitare che l’arrivo delle piogge rovini il raccolto e si produca meno. In queste zone, infatti, non si semina in autunno per raccogliere a giugno come in Italia, ma in primavera per raccogliere verso settembre, prima che arrivino freddo e pioggia. Il frumento infatti è pronto quando è secco e l’umidità è inferiore al 13% circa. Da una ricerca compiuta in Gran Bretagna sul pane integrale è emerso che il 30% di pane con crusca era contaminato.
Difficile scovare il glifosato nelle analisi
Ecco, quindi, ciò che può accadere anche al nostro pane e alla nostra pasta, di cui facciamo un uso abbondante e pressoché quotidiano in Italia. Un uso che, come dimostrano le cifre, non può essere soddisfatto dalla produzione interna: “Importiamo molto frumento, peraltro, anche dall’Ucraina (576.693 di tenero) dove, sappiamo bene, esiste un problema di radioattività enorme, a seguito del disastro di Chernobyl…”, sottolinea Dinelli. Se a questi dati si aggiunge la difficoltà notevole a “scovare” il glifosato quando si effettuano analisi, il cerchio si chiude. “Si tratta di una molecola che non è facile rilevare, soprattutto sulle basse quantità”, spiega Dinelli. Sotto i 100ppb è molto complicato, ad esempio. Il professore fa anche l’esempio dell’analisi delle acque: “Se si vuole cercare glifosato nei fiumi, è bene farlo da aprile in poi, quando calano le piogge e si intensifica l’utilizzo di pesticidi; analisi compiute in altri periodi dell’anno hanno dato risultati contrastanti rispetto a quelle fatte in estate”. Lo studioso insiste su un concetto: “Il problema è tutto politico”.
Il preharvest? Una proceduta perpetrata a scapito della salute
Ed è così, a suo avviso, innanzi tutto per un motivo banale ma disastroso al contempo: la Monsanto, che è l’azienda multinazionale maggiore produttrice di glifosato al mondo, è al contempo controllata e controllore. Questo innanzitutto perché “fino ad ora l’onere della registrazione della molecola è stato in capo all’azienda produttrice e i costi di registrazione sono molto alti. Si parla di milioni di euro”. Una procedura perpetrata nel tempo a scapito della salute, perché, ribadisce Dinelli, sono ormai anni che gli studi e le ricerche scientifiche hanno appurato che il glifosato è sia teratogeno (provoca, cioè, malformazioni nei nascituri) che probabilmente cancerogeno, come ha stabilito la Iarc. “Gli studi scientifici indipendenti pubblicati sulle riviste scientifiche sono molti e arrivano alla medesima conclusione”, specifica Dinelli. Tra l’altro, aggiunge, “è almeno dal 1981 che la Monsanto è a conoscenza degli effetti di questa sostanza perché già in quegli anni vennero prodotti internamente dossier tossicologici, ma – complice il fatto che talvolta gli studi possono dare risultati diversi se le analisi non sono compiute corretta- mente,vista la particolarità della molecola – sono sempre stati presentati dalla Monsanto stessa risultati delle ricerche favorevoli alla prosecuzione dell’attività”.
La ricerca del profitto “giustifica” l’uso di glifosato
Il ragionamento del resto – economicamente parlando – non fa una piega, sebbene, così facendo, “il principio di cautela – secondo il quale, anche a fronte di un minimo sospetto di tossicità, sarebbe opportuno fermarsi e riflettere – svanisce dietro al profitto”. Profitto notevole, se si considera che “in un mercato che muove 13 miliardi di euro, il glifosato si prende la metà: 6,5 miliardi.
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In un contesto simile, “l’Europa è un vero e proprio campo di battaglia” perché, se a Bruxelles si dovesse pren- dere, a brevissimo, la decisione di non autorizzare più il glifosato, questa scelta avrebbe senz’altro ripercussioni notevoli nel resto del mondo. “E così dovrebbe accadere, perché non è più tempo di derogare quando si tratta di decisioni così importanti che riguardano la salute di tutti gli esseri umani. E già le deroghe sono state fatte nel 2002 quando è stata concessa l’autorizzazione ma studi che dimostravano la tossicità del glifosato erano già a disposizione”. Poco importa, secondo lo scienziato, che a oggi in Europa la decisione non spetti agli organismi politici ma ai comitati tecnici, peraltro non eletti ma nominati. “La politica, a mio avviso, può molto, in ogni caso: può prendere in mano la situazione, richiamare al principio di cautela e fare un ragionamento lungimirante, che guardi avanti, e che rifletta sul fatto che l’uomo, in quanto essere vivente posizionato in cima alla catena alimentare, si vedrà ritorcere ogni decisione sbagliata contro”. Ciò che senz’altro può stupire la gente “comune” in generale è che l’Efsa – in quanto autorità europea per la sicurezza alimentare – non solo utilizzi studi provenienti dalle aziende produttrici per dare il suo responso sul glifosato, ma non si ponga problemi di salute ed etici.
“Purtroppo si tratta di istituzioni ‘baraccone’, fatte prevalentemente di burocrati che operano all’interno di un sistema che è totalmente sbagliato”, afferma Dinelli. Il glifosato, in fondo, “non è altro che il paradigma di come produciamo ciò che mangiamo: a fronte dell’obiettivo produttivo ed economico si è disposti ad accettare tutto”.