Quattro Stati e Washington DC, hanno già legalizzato l’uso ricreativo della marijuana, mentre l’uso di marijuana medica è attualmente legale (o in procinto di diventare legale) in circa 20 Stati – per non parlare dei tanti Stati che hanno depenalizzato il farmaco negli Usa. Allo stesso tempo, l’uso del tabacco continua a diminuire e i pochi giganti del tabacco rimanenti cominciano ad avere un dubbio: trasformarsi da Big Tobacco a Big Marijuana?
L’industria del tabacco, spiega Consumerist uno dei blog più autorevoli dei consumatori Usa, non è stupida e ha pensato a dilettarsi con la marijuana almeno dal 1960.
“Noi siamo nel business del relax delle persone. L’essere umano ha bisogno che i nostri prodotti non scompaiano”, si legge una nota interna Philip Morris dal 1970 che prosegue:”Così, l’unica vera minaccia per la nostra attività è che la società trovi altri mezzi per soddisfare queste esigenze.”
Per combattere la contrazione di consumatori, il numero di imprese che producono sigarette è stato ridotto a ciò che oramai appare un duopolio. Nel 1994, quando l’allora deputato Henry Waxman ha chiamato i capi delle più grandi aziende produttrici di tabacco degli Usa a testimoniare davanti alla House Energy and Commerce Subcommittee on Health and the Environment, c’erano i dirigenti di sette aziende diverse. Se il Congresso dovesse ripetere l’audizione oggi, ce ne sarebbero solo tre: Altria, Reynolds – che insieme costituiscono circa l’80% del mercato statunitense – e la più piccola Liggett.
I columnist di Bloomberg Gadfly, Tara Lachapelle e Rani Molla, non hanno dubbi: la questione non è “se” l’industria del tabacco entrerà nel business della cannabis, ma “quando” il cambiamento avverrà. E sottolineano che la domanda dei consumatori di marijuana negli Usa è di 45 miliardi di dollari all’anno, più del cioccolato o del vino, e circa la metà di quella di tabacco o di birra.
Tuttavia, la domanda di tabacco si prevede che continuerà a diminuire, mentre quella di alternative come le e-sigarette sono destinate a crescere in popolarità.
Gli analisti di Bloomberg spiegano che la domanda di marijuana è troppo grande perché Big Tobacco la ignori, soprattutto se si considera che questi produttori di sigarette hanno alcune attrezzature e processi che potrebbero essere facilmente utilizzare per la produzione di prodotti a base di cannabis.
Mentre Altria e Reynolds hanno entrambi precedentemente negato qualsiasi interesse attuale nel business della marijuana, sembra che sono destinati a testare questa strada visto che gli Usa si muovono verso la legalizzazione a livello federale.
Lachapelle e Molla concludono: “La realtà di trovare in vendita spinelli in confezioni di marca può anche sembrare lontana. Ma sta arrivando molto prima di quanto si pensi. Le aziende che getteranno le basi per farlo avranno il vantaggio della prima mossa”.
L’ALTERNATIVA DEI SOCIAL CLUB
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Se da una parte c’è il mercato che spinge per fare una montagna di soldi con la marijuana legale, dall’altra c’è chi lavora per arginare la speculazione di un settore pronto ad esplodere e travolgere l’aspetto di condivisione sociale legate al consumo. Sono i cannabis social club, che in Italia si stanno diffondendo lentamente. A parte quello nato a Racale, vicino Lecce, a opera di un gruppo di malati che rivendicavano l’uso della cannabis terapeutica, le altre realtà del genere nascono più sull’impronta dei social club sorti in Spagna negli ultimi anni. Con la differenza che in Italia sono ancora associazioni di sensibilizzazione sul tema, essendo la produzione di marijuana illegale nel nostro paese. Stefano Armanasco, coordinatore di Freeweed, la rete che mette insieme i cannabis social club, ha raccontato al Test-Salvagente come funzionano e come funzioneranno quando la legalizzazione delle droghe leggere sarà una realtà in Italia.
“Ci rifacciamo al concetto per cui sono nati i cannabis social club in Spagna” spiega. “La legge permetteva il consumo, ma arrivandovi comunque tramite il mercato nero. Il social nasce per creare una situazione legale. Il sistema si fonda sul no-profit, e nasce per coltivare le piante insieme in un posto in base all’esigenza dei soci che si iscrivono e dividono equamente le quote e il raccolto”.
In Spagna funziona così?
Purtroppo no. Il 10% ormai ha mantenuto quella logica. Adesso le persone si associano, vedono la possibilità di cederla a terzi, esen- tasse, creando un micro-business, e tu non puoi dire nulla perché da socio esterno ormai sei un cliente, non sei un vero e proprio partecipante.
Come volete evitare la deriva spagnola in Italia?
Sicuramente creando dei social club di dimensione comunale, poi puntando più al fatto che i soci siano residenti che non a imporre un limite massimo di iscritti.
Perché creare i social club se, una volta legalizzata, ognuno potrà comprare la cannabis al negozio?
I social club non si sostituiranno al mercato. Si tratta di un’alternativa economica che permette una condivisione sociale maggiore e che non crea domanda. C’è anche un impatto economico da considerare: se coltivi con quattro persone è chiaro che i costi si abbassano.