L’Italia vota contro la direttiva emissioni industriali proposta da Bruxelles perché all’interno sono inclusi anche gli allevamenti intensivi. Esultano i sindacati agricoli, ma la verità è che questo tipo di stabilimenti, oggettivamente, inquinano molto.
L’Italia vota contro la direttiva emissioni industriali (Ied) proposta da Bruxelles perché all’interno sono inclusi anche gli allevamenti intensivi. Durante il Consiglio Ambiente Ue, il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin ha chiarito la contrarietà del governo alla nuova proposta svedese, che rispetto alla versione iniziale era stata limata per venire incontro ai desiderata dei produttori. La ragione risiede nella stretta sulle emissioni inquinanti che verrebbe fissata per le produzioni industriali. Nel caso degli allevamenti, in particolare, a pesare sono quelle di metano, emesse dal bestiame, e di ammoniaca.
Cosa dice la direttiva
Mentre attualmente la direttiva in vigore, la 2010/75/UE, riguarda solo gli allevamenti suinicoli e avicoli più grandi (il 5% del totale), con l’approvazione del nuovo testo, che è passato nonostante la contrarietà dell’Italia, si vedrebbero alcune modifiche sostanziali: l’abbassamento del numero minimo a 350 capi per bovini e suini, 280 per il pollame, e 350 per gli allevamenti misti.
Coldiretti: direttiva “ammazza-stalle”
Lo studio italiano che spiega quanto inquinano gli allevamenti intensivi
“In Italia agricoltura e zootecnia sono nel loro insieme insostenibili e creano un deficit fra domanda e offerta di risorse naturali” spiegava Silvio Franco, docente del dipartimento di Economia, Ingegneria, Società e Impresa dell’Università della Tuscia e autore dello studio. “L’impatto ambientale dell’insieme delle attività di coltivazione e di allevamento è pari a circa una volta e mezza le risorse naturali messe a disposizione dai terreni agricoli italiani”. In questo squilibrio gli allevamenti giocano un ruolo rilevante, considerando che da soli richiedono il 39 per cento delle risorse agricole italiane solo per compensare le emissioni di gas serra derivate da deiezioni e fermentazione enterica degli animali allevati.
L’impronta ecologica
L’indicatore utilizzato è quello dell’impronta ecologica, che stima l’impatto di un dato settore in rapporto alla capacità del territorio (biocapacità) di fornire le risorse necessarie e assorbire i rifiuti o le emissioni prodotte. In questo caso su un lato della bilancia sono state messe le sole emissioni dirette degli animali allevati, sull’altro le risorse naturali che la superficie agricola italiana fornisce. Si tratta quindi di una stima conservativa, che non prende in considerazione altre fasi della filiera come l’importazione e la produzione di mangimi, o l’energia utilizzata.
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Il caso del bacino padano
Più della metà dell’impronta ecologica del settore zootecnico dipende dalle regioni del Bacino Padano e quello della Lombardia contribuisce da solo per oltre un quarto all’impatto nazionale e sta divorando il 140% della biocapacità regionale. La Lombardia dovrebbe avere una superficie agricola di quasi una volta e mezzo quella attuale per compensare le sole emissioni degli animali allevati sul suo territorio. I dati lombardi evidenziano cosa accade quando si registra un’elevata densità di capi in un territorio con limitata bioproduttività, condizione simile alle altre regioni padane: Veneto (64%), Piemonte (56%), Emilia-Romagna (44%). A sud, prima per percentuale di impatto è la Campania (52%).