Sovraffollamento, funzione rieducativa disattesa, condizioni igieniche preoccupanti, ma anche situazioni burocratiche vessatorio che rincorrono il detenuto anche dopo aver scontato la pena. Sono i principali motivi che spingono alla marcia di domani, 6 novembre, promossa dal Partito Radicale, che partirà la mattina dal carcere romano di Regina Coeli per arrivare a piazza San Pietro, dove Papa Francesco celebrerà la santa messa in occasione del giubileo dei carcerati. La marcia, dedicata a Marco Pannella e allo stesso Bergoglio, ha l’obbiettivo di mettere in primo piano i problemi dei detenuti, come quello che ci racconta un ex detenuto, attualmente in libertà vigilata, che ha scontato 15 anni in carcere, e si è visto recapitare una cartella esattoriale di Equitalia una volta fuori.
La mazzata di Equitalia
“3.743,50 euro richieste per le spese di mantenimento carcerario – scrive Antonio (lo chiameremo così per rispettare la sua richiesta di privacy – tramite cartella equitalia, esigibili in blocco, senza rateizzazione, senza aver mai inviato in precedenza il campione penale con la richiesta. Ecco il prezzo di 15 anni, cinque mesi e svariati giorni di carcere”.  La legge italiana infatti prevede che i detenuti contribuiscano al proprio mantenimento in carcere, che dallo scorso anno è stata raddoppiata a 108,60 euro mensili. “Solo che mentre ero in carcere nessuno mi ha mai detto che mi fosse arrivata la richiesta di pagamento. Mi sembra assurdo che si proceda con la cartella già maggiorata con le sanzioni quando non è mai stata notificata in precedenza la cifra regolare”, dice Antonio che di fronte alle rimostranze ha ricevuto come risposta che in quanto detenuto non gode del diritto di ricevere nel suo domicilio temporaneo le notifiche fiscali.  Il costo della cartella per Antonio è particolarmente oneroso, trovandosi in una situazione di serie difficoltà economiche e per di più con uno stretto familiare gravemente malato. Sicuramente il decreto per rottamare Equitalia potrebbe essere uno strumento per abbassare il peso della cartella da pagare, a cui andrebbero stornati gli interessi di mora e le sanzioni per il ritardo.
La richiesta di remissione è difficile
Oltre questo, Simona Filippi, legale di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti, risponde al Test: “Quello che può fare il detenuto in questi casi è una richiesta di remissione del debito alla magistratura di sorveglianza, dovuta alle condizioni economiche molto disagiate in cui ci si trova. L’unico problema di questa richiesta è che deve essere documentata in un modo quasi maniacale, perché tendenzialmente rigettano”. E, oltretutto, anche qualora la richiesta di remissione venga accettata, i soldi trattenuti direttamente dalla paga dei lavori carcerari, non possono essere recuperati dall’ex detenuto indigente.
Spese raddoppiate, salari fermi al 1993
“A me il discorso della retribuzione fa orrore per altri ragionamenti – aggiunge Filippi – Ad esempio il problema grave è che hanno livelli di retribuzioni che risalgono al 1993, mentre hanno avuto il raddoppio delle spese di mantenimento”. Le persone che lavorano alle dipendenze del ministero della Giustizia, come lo scopino, il portavitto, e gli altri lavori comuni dentro le carceri, sono pagate sulla base di contratti collettivi nazionale del lavoro che si applicano a tutte le persone impegnate in occupazioni analoghe, anche all’esterno. Tendenzialmente viene applicato il contratto nazionale domestico. “Solo che per i detenuti le retribuzioni non sono state più aggiornate dal 1993.  Tanto è vero che questa cosa è al centro di innumerevoli cause”, spiega l’avvocato di Antigone, che ricorda come un’ora di lavoro dentro il carcere venga pagata in media 2,5 euro all’ora.  E dire che secondo l’articolo 22 dell’ordinamento penitenziario la “mercede“, non deve essere inferiore ai due terzi della retribuzione di quanto stabilito dal contratto nazionale di categoria, che nel 2016 è stato aggiornato a 4,54 l’ora per le mansioni più basiche. Siamo dunque ben lontani dal garantire ai detenuti e agli ex detenuti quei diritti minimi necessari al re-inserimento sociale.