Pfas in Veneto, la sentenza storica nasce da una battaglia ultradecennale di cittadini e associazioni

pfas

La sentenza che ha comminato una pena complessiva di 141 anni per 11 manager che negli anni hanno avuto la responsabilità dello stabilimento di Trissino (Vi) dove si producevano Pfas, farà la storia. Un epilogo che sarebbe stato diverso senza l’impegno ultradecennale di abitanti e associazioni, nel silenzio della politica

 

La sentenza che ha comminato una pena complessiva di 141 anni per 11 manager che negli anni hanno avuto la responsabilità dello stabilimento di Trissino (Vi) dove si producevano Pfas, farà la storia. Condanne esemplari per un disastro ambientale che in Italia hanno un precedente solo nel processo Montedison-Eternit sulle disastrose conseguenze dell’amianto. Il caso della contaminazione in Veneto da sostanze perfluoroalchiliche, utilizzate nell’industria come impermeabilizzanti e ritardanti di fiamma per varie tipologie merceologiche (dalle stoviglie al tessile), nasce da una storia lunga decenni. Una storia, in cui, se ad un certo punto non fossero intervenuti i cittadini del triangolo tra Vicenza, Verona e Padova e alcuni associazioni locali (come Mamme no Pfas e Cillsa) e nazionali (Greenpeace, Legambiente e Isde Italia, su tutte), l’epilogo sarebbe stato ben diverso. Anche le istituzioni regionali sono state tirate inizialmente per la giacchetta affinché mettessero il sicurezza l’acquedotto pubblico, e salvassero il salvabile. Per questo ci è sembrato importante ricordare come tutto è partito, riportando parte del capitolo dedicato al disastro ambientale in Veneto, contenuto nel libro “Pfas. Storia di una contaminazione”, pubblicato dal Salvagente.

Le origini dell’inquinamento

Difficilmente si può immaginare una paura peggiore per un genitore, di quella di contribuire a contaminare il proprio figlio, pregiudicandone il normale sviluppo. A maggior ragione se la minaccia arriva dai rubinetti di casa, sotto forma di acqua trasparente come se fosse biologicamente pura e pronta per essere bevuta.

È quello che è successo, e che continua a succedere per quanto riguarda l’irrigazione dei campi agricoli, in una zona del Veneto che coinvolge circa 90 comuni, in un’area vasta 200 km quadrati tra Verona, Vicenza e Padova. Molti dei 350mila residenti hanno scoperto di avere nel sangue livelli preoccupanti di Pfas. Una storia, che raccontiamo nel dettaglio in questo capitolo, iniziata nel 2013 e non ancora finita. Con numeri drammatici: uno studio dell’Università di Padova, pubblicato nel maggio 2024 sulla rivista scientifica Environmental Health, ha rivelato l’impatto devastante della contaminazione da Pfas sulla mortalità della popolazione che risiede nei comuni veneti più colpiti. La ricerca, condotta dal professor Annibale Biggeri assieme al suo team dell’Università di Padova, in collaborazione con il Registro Tumori dell’Emilia-Romagna, l’Iss e con il contributo di citizen science del gruppo Mamme No Pfas, ha evidenziato un aumento di decessi per tutte le cause nella popolazione dell’area contaminata. Per l’esattezza, dal 1985 al 2018 si è registrato un eccesso di oltre 3.800 morti rispetto all’atteso, una morte in più ogni 3 giorni. Per dare un’idea più concreta, è come se in questi 34 anni fosse scomparsa la popolazione totale di due comuni dell’Area Rossa: Orgiano (3000 abitanti) ed Asigliano (800 abitanti). In particolare, per la prima volta, è stata dimostrata un’associazione causale tra l’esposizione ai Pfas e un rischio elevato di morte per malattie cardiovascolari. Tramite l’analisi delle diverse classi d’età, lo studio ha evidenziato anche un aumento del rischio di insorgenza di malattie tumorali al diminuire dell’età. La popolazione più giovane, esposta ai Pfas già durante l’infanzia, è quella che paga il prezzo più alto. Sorprendentemente, si è anche osservato un effetto protettivo nelle donne in età fertile. Questo fenomeno potrebbe essere attribuito al trasferimento, già ampiamente documentato in letteratura scientifica, dei Pfas dal sangue materno al feto durante la gravidanza e l’allattamento, e alla conseguente diminuzione di livelli di Pfas nelle madri. Evidenze scientifiche che rendono ancora più urgente l’avvio dello studio di coorte (che segue l’evolversi clinico di una determinata popolazione per anni), deliberato dalla Regione del Veneto già nel 2016, ma mai iniziato.

Piergiorgio Boscagin, presidente di Legambiente di Cologna Veneta, che partecipa ai comitati locali No Pfas, racconta: “La storia della contaminazione da Pfas è venuta a galla nel 2013, quando il Cnr ha pubblicato uno studio che rivelava la contaminazione di una falda acquifera enorme, tra le più vaste d’Europa, da cui pescano molti acquedotti che portano l’acqua nelle nostre case, eppure nessuno ha fatto nulla fino al 2017”. Quattro anni colpevolmente trascorsi invano, fino a quando la Regione Veneto ha rivelato i dati di un monitoraggio riservato che confermava l’allarme e imponeva limiti di legge (che non esistono ancora a livello nazionale) di presenza di queste sostanze nell’acqua.

sponsor

La fonte principale del rilascio di sostanze perfluoroalchiliche nell’ambiente è stata l’azienda chimica Miteni di Trissino, che, nel 2018 prima di fallire proprio a seguito dello scandalo, aveva indicato come fonte del possibile inquinamento rifiuti interrati negli anni 70, epoca in cui l’industria era in mano alla Rimar, spiegando che non produceva Pfos e Pfoa (ritrovati nelle acque della zona) dal 2011, sostituiti con Pfas a catena corta, meno persistenti. Quando la notizia della contaminazione raggiunge gli abitanti, la regione prova a correre ai ripari avviando per gli abitanti del posto la plasmaferesi, la pulizia del sangue, e scatenando la reazione del ministero della Salute. Nel dicembre 2017 arrivano persino i Nas da Roma a interrompere la cura sperimentale su cento veneti con alte concentrazioni di Pfas nel sangue. Il ministero della Salute accusa il governatore Zaia di aver avviato un trattamento “senza solide basi scientifiche”, e senza averlo coinvolto, la Regione sostiene di aver avvertito Roma. Trattamento invasivo o efficace?

I veneti con il Pfas nel sangue sono rimasti nel dubbio, tra rabbia e incredulità. Nel frattempo la contaminazione ha continuato a espandersi attraverso la falda e le acque superficiali, come i fiumi. Nel 2018 nella zona rossa vengono installati dei filtri e viene abbassata drasticamente la presenza di Pfas nelle acque, ma ci sono Comuni fuori da quella zona dove la contaminazione è oramai arrivata.  Greenpeace chiede che le istituzioni s’impegnino per la vera soluzione del problema, una riconversione industriale, sull’esempio delle aziende come Goretex che hanno iniziato a sostituire i Pfc, probabili cancerogeni, con altre sostanze impermeabilizzanti non tossiche. Intanto, la bonifica dei terreni è ancora lontana, ma la battaglia dei comitati locali si infiamma. A gennaio dello stesso anno il comitato No Pfas riceve un appoggio, anzi una benedizione, importante: quella di Papa Bergoglio.

Nasce il comitato Mamme No Pfas

Nel 2017 nasce il comitato Mamme No Pfas, sull’onda della preoccupazione per gli effetti sulla salute degli abitanti della zona rossa, soprattutto dei più piccoli. A raccontarlo è Michela Piccoli, una delle fondatrici: “Tutto inizia quando nella cassetta della posta mi arriva una lettera dall’Ulss, c’è scritto il nome di mia figlia, la apro, sono le risposte del prelievo ematico eseguito il mese precedente. Mi sento tranquilla, sono strasicura che tutto è apposto. Apro la busta, vedo subito che qualcosa non va bene, alcune voci che non ho mai sentito nominare: Pfoa, Pfos E Pfhxs superano di gran lunga il limite di riferimento indicato nel foglio”.

Michela si collega a internet e trova molti articoli. Non solo: “Cerco sul sito del Comune e trovo un documento che mi fa sobbalzare dalla sedia. Entra in casa Simone mio marito e insieme leggiamo il documento: commissione tecnica regionale sui pfas, del 22 ottobre 2016 a firma del direttore Generale Area Sanità, dott. Domenico Mantoan”. La lettera indica i 21 comuni interessati dalla contaminazione, e riporta “un moderato ma significativo eccesso di mortalità” per cardiopatie (+21% uomini,+11% donne), per malattie cardiovascolari (+19 % uomini), per diabete mellito nelle donne (+25%) e per alzheimer nelle donne (+14%). Inoltre, nei 21 comuni vi è “un moderato ma significativo eccesso di prevalenza per alcune condizioni e malattie dell’area cardiovascolare”: ipercolesterolemia, colite ulcerosa, alterazioni del metabolismo dell’acido urico, malattie della tiroide, alterazioni dei livelli del glucosio, patologie tiroidee, ipertensione indotta dalla gravidanza, pre eclampsia, diabete gestazionale. E nei bambini: malformazioni del sistema nervoso centrale, del sistema cardiovascolare, e cromosomiche.

“Mi fermo perché ho il cuore che sento battere in gola, ho letto abbastanza, e la rabbia mi assale – continua Michela – ricevo di lì a poco la prima telefonate: Chiara, Giovanna, Elena hanno ricevuto le risposte delle loro bambine. Dobbiamo incontrarci, dobbiamo parlarci, non c’è un minuto da perdere”. Quel caffè al chiosco di Lonigo è stato l’inizio di tutto. “Cosa facciamo?” si chiedono, mentre da quattro mamme passano a cinque, a 80 in tre giorni, a 200 in otto giorni e così via. Intanto si va dal sindaco, in provincia, all’Ulss, in regione, a Roma, fino a Bruxelles, e Strasburgo. Tra le fondatrici del comitato c’è anche Michela Zamboni, che ricorda: “La cosa più drammatica è stata scoprire che con la gravidanza e l’allattamento, noi stesse contaminavamo i nostri figli con i Pfas”.

Le Mamme No Pfas parlano con associazioni di categoria, Confagricoltura, Coldiretti, Consorzi di bonifica, gestori idrici, scuole, parrocchie incontrano i rappresentanti dei comuni limitrofi. “Le associazioni già esistenti sul territorio che da anni si battevano e che erano rimaste inascoltate, derise e considera allarmiste, ci hanno aiutate e noi gli saremmo per sempre riconoscenti. Sono stati i veri nostri eroi e a loro va tanto o tutto il merito” dice Michela Piccoli che racconta che il motore di tutta questa energia per la lotta è “la rabbia innanzitutto. Coloro che dovevano proteggerci non lo hanno fatto, anzi hanno dato ai delinquenti il permesso di produrre, di inquinare la nostra acqua e le persone a noi care: i nostri figli. La rabbia è una cattiva compagnia, non ti fa dormire la notte, non ti fa stare mai tranquilla, bisogna trasformarla in obiettivi da raggiungere, bisogna incanalarla in energia positiva propositiva, costruttiva. E da qui siamo partite, con educazione, ascoltando, studiando e preparando strategie, percorsi, allacciando relazioni. Tutte insieme con l’aiuto dei nostri mariti e con il supporto dei nostri bambini che coloravano striscioni e cartelli”. La sfiducia nelle istituzioni che hanno lasciato fare per decenni è tanta: “Non possiamo più permetterci il lusso di delegare la salute dei nostri bambini a chi non li ha cuore. I nostri figli sono le nostre vere istituzioni e solo a loro obbediremo”.

E in effetti, le evidenze che vengono fuori nel corso del tempo confermano incidenze reali sull’organismo umano. Uno studio condotto dal servizio epidemiologico regionale del Veneto, negli anni 1997-2014, ha osservato un aumento dell’86% delle orchiectomie per cancro al testicolo nel comune di Lonigo in provincia di Vicenza, il Comune i cui residenti hanno la più elevata concentrazione media di Pfoa nel sangue. E un report del 2019 dell’Isde-Medici per l’ambiente, scrive: “In Veneto, dopo l’iniziale biomonitoraggio su un campione di 250 soggetti la Regione ha intrapreso un piano decennale di sorveglianza sanitaria di una fascia della popolazione esposta. I risultati sono preoccupanti, in quanto i dati riferibili a circa 20.000 soggetti sottopostisi ad analisi, confermano concentrazioni medie attorno ai 70 ng/ml di Pfoa con punte fino a 1400 ng/mL e la presenza in oltre il 50% degli indagati di altri 3 Pfas in concentrazioni superiori al limite di quantificazione”. In altre parole, “circa il 50% circa dei soggetti presenta anomalie di uno o più parametri di laboratorio indicativi di danno associato alle Pfas”. Nell’ottobre del 2022, il rapporto sullo stato delle acque superficiali realizzato dall’Arpav dice che ci sono troppi Pfas e troppo glifosato nelle acque del Veneto, e soprattutto della zona del Polesine. Secondo il rapporto, il Pfos, l’acido perfluoroottansulfonico, vietato perché riconosciuto cancerogeno e interferente endocrino, insieme agli Ampa del glifosato, sono presenti in oltre il 50% delle acque analizzate, in quantità oltre i valori massimi. In particolare, i Pfos sono oltre i limiti in oltre 15 stazioni di rilevamento in Polesine. Uno nel Poazzo, parrebbe dalla mappa, e gli altri equamente divisi fra Adige e Po, con uno dei valori più alti nel Delta, nel Po di Goro, e uno all’altezza di Badia. L’Arpav scrive: “Il maggior numero di siti che presentano superamenti degli standard di qualità di Pfos è connesso al noto fenomeno di inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) delle acque superficiali e delle falde acquifere interessanti territori delle province di Vicenza, Verona e Padova”. A riprova del fatto che le sostanze perfluoroalchiliche non hanno contaminato il territorio veneto solo a partire dal disastro ambientale di Trissino, che però ha giocato una parte fondamentale.

Chi ha incontrato i Pfas sulla propria strada

Per quanto possano essere impressionanti i numeri e le percentuali, è importante non perdere di vista come dietro si nascondano storie drammatiche e persone in carne ed ossa. Come Carla (nome fittizio per privacy) da Lonigo che racconta al Salvagente: “Mio padre aveva un pezzo di orto e per innaffiare ha sempre utilizzato l’acqua del pozzo, per anni abbiamo mangiato sia le cose dell’orto, sia bevuto l’acqua del rubinetto. Lui ha iniziato già da giovane, a 40 anni circa, ad avere problemi di ipercolesterolemia”. Con il tempo si ostruiscono le coronarie, l’uomo subisce interventi per liberarle, e alla fine, a 63 anni, muore per conseguenze legate alla patologia.  “È successo nel ’99 – scrive Carla – Noi anche adesso non abbiamo la certezza matematica della connessione con i Pfas, ma da noi qui ce ne sono tantissimi tutt’ora con il colesterolo alto. Adesso stanno facendo anche lo screening da due o tre anni e trovano sempre dati che vanno in questa direzione. Io stessa all’età di 35 anni ho cominciato ad avere il colesterolo alto, e poi ho dovuto prendere le statine che assumo tutt’ora che ho 51 anni. Anche mio fratello ha ipercolesterolemia e ipertensione, anche lui da giovane”.

Ma l’aspetto forse più delicato della faccenda, riguarda la figlia di Carla, che ha 11 anni. “A 5-6 anni sentivo che aveva una sudorazione come un adulto – spiega la donna – l’ho portata a fare visite a endocrinologia, e le hanno trovato una pubertà anticipata. Il suo utero cominciava a svilupparsi anche se era una bambina, così come il seno. Quindi dall’età di 10 anni gli stanno dando delle bombe di ormoni per cercare di fermare lo sviluppo. Lei è 1,30-1,40 di altezza ora, spero che cresca. Pensi che sono farmaci che usano normalmente nelle terapie tumorali e quando le donne vanno in menopausa. Bloccano un processo che dovrebbe essere naturale. Ogni iniezione, una volta al mese, deve farla in ospedale, dunque perdiamo anche una giornata”. E la ragazza, ogni volta, diventa molto più nervosa, più triste.

Carla non si dà pace: “Ho allattato per un anno e mezzo i bimbi ma poi ho saputo che i Pfas li passavo con il latte”. E anche se ora fanno il possibile per non assumere più quelle maledette sostanze, lo stravolgimento della vita è rimasto: “Abbiamo cambiato casa e ora usiamo acqua in bottiglia e stiamo attenti all’origine della verdura che mangiamo. Coltiviamo l’orto, ma non mangiamo quelle verdure, lo faccio giusto per insegnare il bello della terra ai miei figli”.

Anche Cinzia Sartori è di Lonigo, e spiega come il suo tentativo di vivere una vita a impatto zero o quasi, rispettando l’ambiente, si sia scontrato con una realtà fatta di inquinamento industriale: “Uso tantissimo la bici, cerco di farmi quello che posso in casa, uso alimenti bio. Anche per questo in casa abbiamo bevuto l’acqua del rubinetto, fiduciosi in quello che sgorgava, invece a un certo punto è venuto fuori questo patatrac”. Per lei i problemi si sono manifestati dopo una mammografia di controllo. “È venuto fuori un carcinoma mammario aggressivo, e l’anno scorso in piena pandemia mi hanno tolto il seno sinistro. Non c’è persona con cui parli qui che non abbia problemi: colesterolo, tumori. Soprattutto tumori al seno. Conosco parecchia gente con problemi, compresa la mia vicina di casa, una mia grande amica: tutte tumori al seno. Quando sono andata a fare le prime visite, il medico mi ha detto che c’è una lista d’attesa per gli interventi al seno. Com’è possibile che nessuno sapesse nulla di quello che stava accadendo?”

Le fonti maggiori di contaminazione

Nel 2019, la prima “Valutazione dell’esposizione alimentare e caratterizzazione del rischio. Pfoa e Pfos” elaborata dall’Istituto superiore di sanità indica acqua, latte, uova e carne bovina e pesce locale come principali fonti di esposizione ai Pfas per i circa 100mila veneti che vivono nella zona rossa compresa tra le province di Vicenza, Padova e Verona. Nella valutazione dell’Iss si sottolinea che “l’acqua è il principale veicolo dell’esposizione e a tal proposito evidenzia che l’intervento sulla rete acquedottistica ha prodotto una drastica diminuzione dell’esposizione e oggi l’esposizione stimata è indistinguibile da quella di baseline (intera popolazione del Nord-Est) anche per l’area rossa A. Per le famiglie dell’area rossa A che fanno uso di pozzi autonomi a scopo idropotabile l’esposizione permane elevata”.

Non solo. “I prodotti alimentari di produzione locale, le uova ed i prodotti a base di uova rappresentano una percentuale importante dell’esposizione, seguiti dalla carne bovina”. Andando nello specifico delle sostanze monitorate, il Pfoa, l’acido perfluoroottanoico usato ad esempio per rendere antiaderenti le pentole, “è il composto più importante, specialmente per la popolazione in zona rossa A, per l’esposizione e il rischio”. La principale fonte di esposizione in zona rossa è “l’acqua in maniera più marcata per gli adulti rispetto ai bambini”. Situazione ancora più compromessa per chi beve acqua di pozzo: “L’esposizione è elevata nella zona rossa A (2,5 volte la dose settimanale ammissibile negli adulti e 5,4 volte per i bambini)”. La principale fonte di esposizione per bambini e adolescenti invece “è il latte vaccino, seguito da acqua, uova e prodotti a base di uova”. Per quanto riguarda invece i Pfos (l’acido perfluoroottansolfonico, usato per la produzione di schiume antincendio) “gli alimenti contribuiscono in maggior percentuale all’esposizione, specialmente il pesce e i prodotti ittici e le uova. L’acqua invece contribuisce meno”. Solo nell’aprile 2021, il Tar Veneto si pronuncia a favore del ricorso di Greenpeace e Mamme No Pfas, che chiede alla Regione di fornire i dati completi sulla presenza di Pfas negli alimenti. A dirlo sono due sentenze pubblicate sul rifiuto da parte delle autorità regionali.

Una delle conseguenze dell’inquinamento massivo delle falde in Veneto è che la popolazione nel triangolo considerato zona rossa tra Vicenza, Padova e Verona, ha smesso di mangiare ortofrutta a km zero, proprio perché innaffiata con acqua contaminata. “Non vogliamo assolutamente creare allarmismi e tantomeno criminalizzare le categorie produttrici che sono anch’esse vittime di questo grave inquinamento – scrivono le Mamme No Pfas e Greenpeace – Proprio per questo abbiamo chiesto anche di conoscere le attività ispettive svolte dalla Regione Veneto di ulteriore controllo e le azioni di tipo precauzionale. Perché è proprio l’aspetto precauzionale che può e deve aiutare le aziende produttrici”. Da anni la Regione aveva opposto il diniego alle varie istanze di accesso agli atti, sostenendo che la loro condivisione avrebbe violato la privacy dei soggetti osservati, oltre ad ostacolare le inchieste giudiziarie in corso. Motivazione contro le quali si era, peraltro, già espresso anche il Garante dei diritti della persona, il quale aveva osservato che le informazioni richieste rientravano nel perimetro delle informazioni accessibili in quanto riguardavano “emissioni nell’ambiente”. Quindi le motivazioni a sostegno del diniego di accesso opposte dalla Regione Veneto sono state ritenute infondate dalle sentenze della sezione II del Tar Veneto n. 464/2021 e 466/2021.

L’appello

Le Mamme No Pfas, a dicembre 2020 scrivono al ministro dell’Ambiente per sollecitarlo a passare all’azione: “Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Danimarca stanno lavorando a una proposta di restrizione Reach per limitare i rischi per l’ambiente e la salute umana derivanti dalla produzione e dall’uso di tutte le sostanze per- e polifluoroalchiliche (Pfas)”, dice la lettera, “Per contrastare questo cambio di rotta, Chemours (azienda chimica Usa, ndr) ha chiamato all’azione le associazioni di industriali di tutta Europa”. Le Mamme No Pfas si chiedono: “La più grave ed estesa contaminazione da Pfas in Europa è in Italia. Perché il nostro governo non è in prima linea in questo cambiamento? I Pfas sono presenti come bombe a orologeria pronte a esplodere nei nostri figli. Non possiamo più tollerare che la cessazione della loro produzione e del loro utilizzo venga continuamente posticipata. Le alternative sicure esistono ed è su quelle che ci si deve concentrare per gli usi essenziali”. Il disastro ambientale è noto dal 2013 eppure solo la Regione Veneto, nel 2017, ha fissato un limite di 390 ng/l per le acque potabili con l’obiettivo di raggiungere lo zero tecnico (assenza virtuale) nell’area più colpita. Mancano ancora limiti nazionali per gli scarichi che il ministero dell’Ambiente sta discutendo da oltre due anni. A causa di questo ritardo, molte aziende venete hanno fatto ricorso e continuano a scaricare oltre i limiti regionali.

Ancora oggi gli scarichi finiscono nei fiumi

Intanto, la situazione nei luoghi più colpiti dall’inquinamento delle falde in Veneto, pur essendo migliorata dopo la chiusura della Miteni, è tutt’altro che risolta. La bonifica della falda, un’operazione complessa ed estremamente costosa, si discute ancora a tavolino, mentre le sostanze inquinanti continuano a essere sversate nei corsi d’acqua locali, come spiegava Piergiorgio Boscagin di Legambiente nel 2021: “Io vivo a Cologna Veneta. Qui c’è un fiume, il Fratta, che arriva in Brenta, e fin dagli anni sessanta è stato utilizzato come una specie di scolo per la valle delle concerie. Alla fine degli anni Ottanta si inventano di prelevare i reflui della valle e trasportarli con un tubo di circa 30 chilometri che parte da Trissino e scarica qui a Cologna Veneta nel Fratta, dopo averli raccolti dai cinque depuratori della valle dell’Agno, dove ci sono le concerie. Qui a Colonia il Fratta interseca un canale irriguo che cede 6 metri cubi di al Fratta 50 metri dopo lo scarico del collettore, per diluire lo scarico con acqua buona”.  Spiega Boscagin: “Nel 2013 scoprono che da quello stesso collettore arrivano i Pfas. Arpav dice che da lì vengono scaricate 2 tonnellate di Pfas all’anno, all’inizio. Poi, nel 2016 ne arrivavano 200 chili. Se fai il calcolo sono circa 500 miliardi di nanogrammi al giorno, che vanno verso il mare”.  Adesso va meglio, perché la Miteni è stata chiusa, e nel frattempo le concerie della zona sono state obbligate ad attivare dei filtri. Ma i Pfas continuano comunque a essere immessi in ambiente. “È comunque acqua che viene utilizzata per l’agricoltura – spiega Boscagin – più a valle si continua ad abbeverare”. Come se non bastasse, la legge italiana non contempla la misurazione e la concentrazione degli inquinanti negli alvei dei fiumi. L’Arpav ha comunque messo a confronto la concentrazione nei sedimenti del fiume con quella delle aree industriali. In molti punti del Fratta, la concentrazione supera di gran lunga i limiti ammessi per i terreni industriale. “Hanno bonificato il Tamigi, possibile che non possano bonificare il Fratta?” si chiede Boscagin, che continua: “Adesso chi apporta più Pfas è il depuratore di Arzignano, perché è quello che raccoglie più reflui della concia. Nel 2013 si diceva che se smettevi immediatamente di inquinare la falda si sarebbe bonificata tra 70-100 anni. Ma per bonificarla devi prima evitare che continui a essere contaminata”.

Miteni, il processo sulle responsabilità

A fine aprile 2021, dopo anni di battaglie dei comitati e delle associazioni ambientaliste, il Gup di Vicenza, Roberto Venditti, rinvia a giudizio 15 persone coinvolte nell’inquinamento da Pfas da parte della Miteni di Trissino. A finire a processo sono i manager della ditta e di società ad essa legate che, a vario titolo, sono accusati di avvelenamento di acque, disastro innominato, inquinamento ambientale ex articolo 452 -bis e reati fallimentari. La decisione del giudice è arrivata al termine di tre ore di camera di consiglio. Il processo davanti alla Corte d’Assise di Vicenza inizierà il primo luglio. Gli imputati sono i manager giapponesi della Mitsubishi Corporation, della lussemburghese Miteni Icig e della Miteni stessa.

Intanto, durante il processo, emergono altri elementi sconcertanti: la dottoressa Francesca Russo, direttore Prevenzione, sicurezza alimentare, veterinaria della Regione Veneto, durante l’udienza del 23 marzo 2022 presso il tribunale di Vicenza, espone i dati sulle gravidanze, con un +69% per diabete gestazionale, +49% di pre-eclampsia e un +30% di bambini con basso peso alla nascita. I dati dei pochi bambini che hanno effettuato il primo round previsto dal Piano di Sorveglianza Sanitaria mostrano un colesterolo oltre i livelli normali nel 13-14% dei casi. Come sottolineato dalla stessa dottoressa Russo, nei bambini certamente viene difficile pensare alla co-presenza di altri fattori di rischio come il fumo, la sedentarietà o la cattiva alimentazione. Non sono le uniche tipologie di malattie esposte dall’esperta durante l’udienza. Nello stesso periodo è stato rilevato: +21% di cardiopatia ischemica nei maschi, +19% nelle femmine, +25% di diabete mellito nelle femmine, +19% di malattie cerebrovascolari nei maschi. “Malattie che da noi fanno morire di più, molto di più, sebbene siano state comparate ad aree venete che sono assolutamente analoghe alle nostre, ma non esposte a Pfas” dichiarano le Mamme No Pfas. E gli abitanti della “zona rossa” maggiormente colpiti da ipertensione arteriosa, cardiopatia ischemica, diabete mellito, dislipidemie e malattie tiroidee. La dottoressa Russo durante l’udienza ha parlato diverse volte di correlazione, certamente mai di relazione causa-effetto, tra l’esposizione ai Pfas e le malattie sovraelencate. Manca infatti un importante tassello: lo studio epidemiologico deliberato nel 2016. “Nonostante le richieste della Commissione Ecomafie, la Regione Veneto non ha mai chiarito i motivi per i quali lo studio non è mai partito e in aula nessuno ne ha fatto cenno. Noi invece continuiamo a chiederlo con forza, certi che fornirà un contributo fondamentale a questo processo, chiarendo in modo inequivocabile la responsabilità delle persone che hanno causato questo enorme disastro” concludono le Mamme No Pfas.

Sempre in udienza, il teste Giampaolo Stopazzolo, direttore Servizi socio-sanitari della Ulss 8 Berica, annuncia che i dati rilevati nell’ambito del Piano di Sorveglianza Sanitaria avviato dalla Regione del Veneto nel 2017 dimostrano che quasi tutti i bambini esaminati (oltre l’80%) hanno quantità di Pfas nel sangue ben superiori a quelle rilevate nelle popolazioni esposte a contaminazione di fondo. Nell’ottobre 2023, il giudice per le indagini preliminari di Vicenza archivia l’inchiesta relativa ai presunti effetti negativi sui lavoratori della Miteni di Trissino dei cicli di lavorazione dei Pfas, nel procedimento che costituisce un secondo filone della inchiesta principale, già approdata a dibattimento in Corte d’assise. Contro l’archiviazione la Cgil di Vicenza e la Filctem di Vicenza avevano avanzato “opposizione”. I sindacati parlano di “una giornata triste per i lavoratori dell’ex Miteni/Rimar e per la giustizia nel nostro paese, perché l’archiviazione delle indagini significa impedire l’accertamento dei fatti e delle responsabilità su quanto accaduto in quella realtà lavorativa dove i lavoratori, rassicurati dai dirigenti aziendali e dal medico aziendale, hanno lavorato per anni sostanze nocive che si sono accumulate nei loro corpi, a danno della loro salute”.

Qualche sparuto miglioramento

Ad oggi gli acquedotti della zona rossa sono tutti serviti da filtri anti-Pfas e sono state inaugurate tre nuove condotte con lo scopo di portare acqua da falde pulite, nelle zone delle tre province interessate. Ma non basta a definire la questione risolta. “Innanzi tutto – spiega Michela Zamboni delle Mamme No Pfas – Ci sono ancora famiglie che non sono allacciate all’acquedotto e utilizzano l’acqua dei pozzi, magari non la bevono ma la usano per cucinare o per lavarsi. E poi anche relativamente alle nuove condotte, non abbiamo la certezza che abbiamo sostituito completamente i vecchi approvvigionamenti dappertutto. È vero che sono attivi i filtri anti-Pfas, ma ricordiamo che hanno limiti di rilevazione di 5 nanogrammi per litro, quantità inferiori potrebbero comunque depositarsi a poco a poco nell’organismo di chi beve l’acqua. Per questo chiediamo il bando completo della produzione di Pfas in Europa”.

Nel frattempo, nell’area contaminata, non si parla ancora di bonifica dei terreni: “Il massimo che hanno fatto è lavorare alla messa in sicurezza tramite una barriera tra il torrente Poscola, vicino l’ex Miteni e le falde e i corsi idrici circostanti. Un’operazione che ci sembra inutile, visto che i terreni sono ormai contaminati”. In un quadro così complesso, inevitabile per il disastro ambientale peggiore d’Europa negli ultimi decenni, ogni dato positivo vale dieci volte tanto. Come quelli arrivati nel maggio del 2023: La Regione Veneto pubblica il Rapporto n.17 relativo al Piano di sorveglianza sanitaria sulla popolazione esposta a sostanze perfluoroalchiliche. I dati confermano l’efficacia dei filtri sull’acqua potabile, ma le acque di pozzo sono ancora inquinante. Delle 106mila persone che ne avevano diritto, quasi 64mila hanno deciso di partecipare al programma di sorveglianza, e di queste 22mila, sono state invitate a una seconda chiamata, per verificare il calo delle concentrazioni di Pfas nel siero e di queste più di 13 mila hanno aderito per un controllo in media a 4 anni di distanza dal primo. Dalle analisi risulta che il Pfoa, il principale contaminante presente nell’acqua potabile (tossico e ormai vietato) sarebbero calato in media del 62% nel sangue degli analizzati. Per la Regione questa è una “riprova dell’efficacia delle misure messe in atto per interrompere l’esposizione idro-potabile (installazione di filtri a carboni attivi negli impianti di potabilizzazione degli acquedotti)”. Secondo il rapporto anche tra gli ex-lavoratori della Rimar-Miteni di Trissino, da cui è partita la contaminazione, e tra gli abitanti dello stesso comune, si osserva un progressivo calo della concentrazione di Pfas nel sangue.

Francesco Bertola, medico di Isde-Medici per l’ambiente, “I dati dimostrano che i filtri funzionano, ma non che il problema sia finito”. E per spiegare meglio le sue parole, Bertola entra nel dettaglio. “Anche i nostri dati ci danno una riduzione del 50% circa, ma intanto va chiarito che c’è una diversa velocità di smaltimento tra uomini e donne. Quest’ultime eliminano più in fretta i Pfas perché li passano ai figli con l’allattamento e perché li perdono con le mestruazioni. Al di là poi di questa differenza, non basta parlare solo di percentuale di diminuzione. Dipende anche da che livello si parte. Nel caso della zona rossa parliamo di una concentrazione pari a 40-45 ng/l. Dunque, dopo 4 anni si è scesi a circa 20. Per arrivare non dico a un livello esente da pericolo, che sarebbe zero, ma almeno in media con la popolazione generale del resto d’Italia, cioè 5 ng/l, servirebbero altri 8 anni, a questo ritmo”. E non solo, “I filtri sono stati messi sull’acqua potabile, ma non sappiamo quanto nella diminuzione di Pfas nel sangue abbia influito il fatto che una parte di popolazione abbia smesso di bere dal rubinetto e comprare verdure locali. E soprattutto, non ci sono stime ufficiali su quanti abitanti in Veneto abbiano continuato ad usare acqua di pozzo, dunque proveniente direttamente dalla falda inquinata, per scopi alimentari o per irrigare i campi. Dunque, i filtri non bastano per dire che la questione è risolta”, conclude Bertola.