Il Consiglio di Stato ad agosto ha dichiarato che un Comune può ridurre le ore di assistenza agli studenti con disabilità gravi se mancano i soldi. L’ennesimo macigno che si aggiunge agli annosi problemi del sostegno scolastico, dall’assenza di continuità ad insegnanti poco preparati, alle normative che danneggiano, invece, quelli motivati
Tra i 7,2 milioni di studenti che a settembre sono tornati a scuola ce ne sono circa 340mila che a causa di disabilità di diversa natura, hanno bisogno di un sostegno aggiuntivo per vedere rispettato il proprio diritto all’istruzione così come qualsiasi altro scolaro in Italia. Lo scorso agosto, però, una sentenza del Consiglio di Stato ha lasciato scioccate le famiglie di molti bambini con bisogni educativi speciali, creando, secondo le associazioni di settore, un precedente giuridico pericoloso. La sentenza 1798/2024, infatti, ha respinto il ricorso di una famiglia contro il Comune di residenza che aveva ridotto da 13 a 7 le ore settimanali di assistenza scolastica dedicate alla comunicazione e all’autonomia per il figlio con disabilità, beneficiario di un Piano educativo individualizzato (Pei). Si tratta di casi per cui la sola figura dell’insegnante di sostegno non basta: il bambino non vedente che ha bisogno di qualcuno che legga per lui o lo faccia leggere in braille, oppure il ragazzino non udente che ha bisogno, per comunicare, della lingua dei segni e dunque di una persona esperta nella lis. O ancora, il ragazzo autistico che per comunicare ha bisogno di qualcuno che padroneggia il metodo specifico Aba, che gli insegnanti generalmente non conoscono. Ci sono poi bambini con disabilità intellettiva che capiscono solo il linguaggio della comunicazione aumentativa-alternativa.
I fondi per gli assistenti all’autonomia dipendono dai Comuni
A differenza che per gli insegnanti di sostegno, i fondi per gli assistenti Aec dipendono dall’amministrazione comunale di riferimento. Per circa un miliardo speso in Italia per l’assistenza, il ministero dà solo un massimo di 200 milioni. Gli altri ce li devono mettere i Comuni e le Regioni, ricorrendo persino ai progetti europei per reperire i finanziamenti. Tornando al ricorso, per respingerlo, i giudici hanno parlato di “contemperamento” del “diritto fondamentale del disabile alle necessarie misure di inclusione scolastica con i vincoli di finanza pubblica”. Secondo Fortunato Nicoletti, vicepresidente dell’Organizzazione di volontariato “Nessuno è Escluso”, si tratta di “una decisione scandalosa ma soprattutto sconcertante e pericolosissima del Consiglio di Stato che con la sentenza praticamente certifica che il diritto allo studio degli studenti con disabilità vale meno di tutti gli altri perché a prevalere è proprio ciò che contestiamo da sempre, quelle ragioni di bilancio che invece non possono e non devono rappresentare una scusa per discriminare. Questa sentenza fa pure del Pei carta straccia”.
Cosa dice la Convenzione Onu sulle persone con disabilità
Rispetto alla richiesta di non “comprimere” il diritto allo studio del bambino per ragioni economiche, il Consiglio di Stato ha però ricordato la Convenzione Onu sulle persone con disabilità, secondo cui “gli Stati parti devono assicurare sia che le persone con disabilità non siano escluse dal sistema di istruzione generale in ragione della disabilità e che i minori con disabilità non siano esclusi in ragione della disabilità da una istruzione primaria gratuita libera ed obbligatoria o dall’istruzione secondaria, sia che venga fornito un accomodamento ragionevole in funzione dei bisogni di ciascuno e che le persone con disabilità ricevano il sostegno necessario, all’interno del sistema educativo generale, al fine di agevolare la loro effettiva istruzione”. Secondo la sentenza, il concetto di “accomodamento ragionevole”, va inteso come “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
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“Allora vediamo dove finiscono i fondi che mancano”
Valentina Perniciaro, fondatrice e portavoce della fondazione Tetrabondi, nata dopo anni di battaglie per i diritti di Sirio, il figlio tetraplegico, non ci sta: “Sembra un po’ rigirarsi la frittata su questo accomodamento ragionevole, che in realtà nasce per tutelare le persone con disabilità e che invece in questo modo viene usato per tutelare il Comune in questione. Sarebbe divertente – continua Perniciaro – nel momento in cui le persone diventano questione di budget, più che di diritto costituzionale di avere la giusta possibilità di accedere alla didattica, alla scuola pubblica, di vederli, allora, questi budget, vedere quali spese preferiscono a quelle per l’assistenza. Magari mantenere 25 auto di servizio o magari tenere l’aria condizionata accesa in 35 uffici chiusi tutta la notte. Non credo che non ci sia la possibilità di dare 5 ore in più di assistenza a un bambino. Stiamo parlando veramente di cifre ridicole”.
Salvatore Nocera, avvocato esperto di integrazione scolastica e componente della Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish), non si sente di dare la colpa al Consiglio di Stato: “È un organo giurisdizionale, il quale deve interpretare le leggi per applicarle, e ha interpretato in modo letterale quello che è scritto nel decreto legge 66 del 17. Lì più volte si dice ‘con le limitazioni determinate dalle risorse disponibili’. In italiano questo significa che non è possibile avere risorse illimitate per questo tipo di attività. Purtroppo quando è uscito il decreto 66 c’è sembrato importante che si parlasse di stabilire le modalità per il servizio di assistenza per l’autonomia e la comunicazione e si prevedesse anche la formulazione di un profilo professionale nazionale e non ci siamo preoccupati di questa espressione”. Questa premessa, però, non porta Nocera a giustificare la sentenza: “Il Consiglio di Stato, che va dritto all’aspetto tecnico, ha detto che se c’è scritto così, si deve interpretare così, ma allora non siamo più di fronte a un diritto soggettivo, perché i diritti soggettivi per legge devono essere realizzati”. Il componente della Fish aggiunge: “Noi ci muoveremo per sostenere che purtroppo il Consiglio di Stato ha fatto correttamente la sua interpretazione per questa parte. Ma dobbiamo batterci per la modifica del decreto 66 o per la sua incostituzionalità laddove parla di queste cose”.
Ma esistono sentenze che dicono il contrario
Valentina Perniciaro, dal canto suo, rileva che il caso può essere inquadrato in una tendenza molto più ampia che riguarda i diritti sanitari dei cittadini in Italia: “È tutto un gioco a ribasso, a tagliare le ore, a togliere le figure professionali necessarie, ad esempio gli infermieri al posto degli operatori sociosanitari. Si potrebbero aprire mille questioni, ma che sia fatta una questione di budget anche sul diritto all’istruzione è preoccupante. Speriamo – continua Perniciaro – che la sentenza venga usata il meno possibile come precedente, perché esistono sentenze che dicono perfettamente il contrario e che quindi vanno raccontate, come dice anche l’avvocata Laura Andravo che collabora con noi come Tetrabondi e che è un’esperta nazionale di disabilità. Nelle stesse settimane lei riceve come avvocata che tutelava una famiglia, una sentenza che dice perfettamente il contrario, che sostiene che il diritto costituzionale di una persona è superiore, come del resto prevede anche l’Oms”. E in effetti, il diritto all’istruzione dei bambini con disabilità è stato affermato da diverse sentenze dei Tar e dei tribunali civili negli ultimi anni. Come nel caso, lo scorso 8 marzo, della sentenza 501 dei giudici di Ancona, o in modo ancora più vincolante dalla Corte Costituzionale, con vari pronunciamenti emessi prima e dopo il famigerato decreto legislativo 66/17. Tra queste, merita di essere citata la sentenza 83 del 2018, che a proposito del finanziamento dell’assistenza scolastica da parte degli enti locali e dello Stato, specifica: “L’assistenza alle persone con disabilità costituisce un nucleo incomprimibile di un diritto fondamentale e deve essere integralmente finanziata”.
Le prime conseguenze della sentenza
Intanto, non a caso, si iniziano a vedere le prime conseguenze della sentenza di metà agosto, come ha scritto a inizio settembre lo stesso Nocera sul portale Superando.it: “Nelle scuole cominciano a crearsi seri problemi: infatti, molti enti locali hanno cominciato da subito a ridurre il numero di ore di assistenza, altri hanno invitato i genitori a portare a casa i loro figli quando manca la presenza degli assistenti”. Ipotesi sufficienti a gettare nello sconforto famiglie che già affrontano quotidianamente una battaglia non semplice. “Provi – spiega al Salvagente l’esperto di Fish – a far restare in classe per sei ore un alunno sordo che comunica solo con la lingua dei segni. Se per una sola ora manca l’assistente e l’interprete della lingua dei segni, quel ragazzino è come se non fosse in classe, perché non capisce nulla, non sente nulla e non può imparare nulla. Trovi un ragazzino che è autistico, se non c’è uno che conosce il metodo Aba (pensato per comunicare efficacemente con bambini con problemi cognitivi), per quell’ora praticamente comincerà a strillare perché va in confusione, entra in crisi e tanti saluti”.
La storia di Alberto, 7 anni, abbandonato a se stesso
Carla, la madre del bimbo di 7 anni, per niente autonomo, racconta in prima persona come, anche nel suo caso, la decisione di ridurre le ore di assistenza per mancanza di fondi abbia stravolto la vita familiare. “Alberto è un bambino di 7 anni di Roma, non è autonomo per niente per un ritardo psicomotorio cognitivo. Lui ha diritto alle 22 ore di Oepac (assistenza alla comunicazione e all’autonomia) a settimana ma, sostenendo che mancano i soldi, ogni anno gli riducono le ore. Ora sono 14. Purtroppo non posso permettermi di pagare un avvocato per fare ricorso, anche perché occupandomi del bambino, non posso nemmeno andare a lavorare. Le ore in cui lui rimane senza assistente, sta lì in classe e se ha dei bisogni sta in mano al buon cuore della maestra di sezione e dei bidelli. Il bambino comunque a scuola deve andarci perché deve imparare e stare con i compagni della sua età. Per Alberto sono stati un disastro quasi tutti i sostegni che ha avuto, tranne due. Non lo assistevano per niente, non lo facevano lavorare, nonostante le lamentele. Sono andata a parlare personalmente al municipio e con la preside. Nessun risultato.
Maestre di sostegno cambiate ogni settimana fino a dicembre
L’anno scorso, Alberto ha avuto delle maestre che sono cambiate ogni settimana fino a dicembre. Non so per quale motivo, ma andavano via tutti, o perché accettavano altri lavori più vicino casa loro, o perché vedevano che non riuscivano col bambino. Alla fine a forza di proteste e di urla, la dirigente ha fatto venire una ragazza a gennaio fissa fino a fine anno. Mi sono trovata benissimo con lei. È stata l’unica che è riuscita a far lavorare Alberto. Faceva dei compiti speciali per lui, ci si impegnava proprio tanto. Anche se mio figlio non parla, quando la vedeva se l’abbracciava, si notava che il bambino andava volentieri a scuola. Altrimenti, per noi familiari è un incubo e ogni anno è una lotta. L’anno precedente Alberto ha avuto un assistente da settembre a giugno che non gli faceva fare nessun lavoro; sono venuta a sapere che è caduto anche due volte nel corridoio mentre lui stava al telefonino, e non l’ha nemmeno aiutato a rialzarsi.
Lo stress fisico ed economico per le famiglie
Per noi è uno stress fisico, emotivo, di soldi, perché comunque poi bisogna farli seguire anche al di fuori. Io l’ho tolto dall’Asl perché non lo mandavano avanti e ho dovuto prendere una terapista privata che lo seguisse. Ed è migliorato tanto, adesso riesce a dire anche un pochino “mamma”, ogni tanto mi chiama pure. Certo, costa tanto: ti chiedono anche 50 euro all’ora. Non lavorando, con 500 euro di pensione di invalidità che ti danno per il bambino, sono davvero tanti soldi. Io del resto non posso avere un lavoro, perché per qualsiasi problema mi chiamano da scuola e mi dicono di andare a prendere Alberto. Se le cose funzionassero meglio, magari potrei provare a trovare un lavoro, anche part time. E fino a poco tempo fa io non sapevo nemmeno che l’Asl mi passasse i pannolini, l’ho saputo l’anno scorso.
La solitudine delle famiglie
C’è anche la mancanza di informazioni: le cose le sappiamo a caso, con il passaparola tra mamme. Non esiste uno sportello di informazione per genitori. Sento tantissima solitudine, perché mi guardano tutti sempre, a partire dai medici, dai terapisti dell’Asl, come se fossi un’esagerata, una esaurita. A me fa rabbia che queste persone che stanno a capo di queste strutture e non hanno figli disabili a casa, non sappiano che cos’è vivere una disabilità. Secondo me è così, perché se uno vivesse con un disabile a casa che non è autosufficiente, saprebbe bene che cosa significa togliere le ore di sostegno o comunque avere delle persone incapaci a scuola accanto a suo figlio dalla mattina alla sera.
La psicoterapeuta: spesso la scuola è diffidente rispetto agli aiuti esterni
Camilla del Balzo, pedagogista e fondatrice della cooperativa BeAble che si occupa di assistere i bambini autistici nel processo di apprendimento, racconta al Salvagente, come spesso la scuola sia chiusa e diffidente rispetto all’intervento di esperti pagati dalla famiglia. Non, però, “quando il caso è particolarmente grave e li mette proprio in ginocchio, oppure quando si sentono gli occhi addosso. L’anno scorso abbiamo fatto delle osservazioni in tandem con il centro convenzionato dell’Asl. Siamo andati in classe a osservare come si svolgevano le lezioni”. È successo “con un ragazzino, a detta loro per tre anni era tutto perfetto, non c’erano problemi. Invece, in un anno di osservazione sono venute fuori delle cose imbarazzanti. Non faceva la didattica, veniva portato fuori senza una motivazione. Al centro convenzionato gli erano state aggiunte delle ore. Vedevamo che questo bambino era molto disregolato nei nostri contesti, ma ci veniva riferito che a scuola andava tutto bene. Dunque l’Asl ha richiesto di avviare un’osservazione particolare. E quando la richiesta arriva dall’Asl, la scuola non può dire di no. A fine anno abbiamo fatto presente che tutto quello che veniva riportato dalle insegnanti non corrispondeva a quello che noi avevamo visto e abbiamo proposto un progetto per l’anno successivo”. Rispetto agli insegnanti di sostegno, Del Balzo, dichiara: “Te ne accorgi subito se uno ha studiato prima e spesso sono gli stessi insegnanti che vengono da noi volontariamente a vedere come lavoriamo con il bambino. Purtroppo poi c’è la tragedia della continuità, perché tu magari lavori per un anno con una persona molto in gamba, la formi, fai un bellissimo percorso insieme, c’è un grande scambio, e alla fine viene mandata da un’altra parte e tu ricominci a scatola chiusa con altri”.
Ma gli insegnanti di sostegno non possono essere il capro espiatorio di tutto
altro lato della medaglia, rispetto alle testimonianze dei familiari di bambini con bisogni educativi speciali che si sentono abbandonati, è la caotica e difficile situazione dei professori di sostegno. Sarebbe troppo facile indicarli come capro espiatorio di un sistema che ha molte falle. A partire dal numero, insufficiente, di insegnanti formati, per finire con le condizioni lavorative. Secondo l’Istat, nell’anno accademico 2022/2024, a fronte di 338mila alunni con disabilità, il numero di insegnanti di sostegno erano solo 228mila. E di questi, ben 85mila erano privi di specializzazione.
Troppe supplenze
Manuela Calza, della segreteria nazionale della Federazione lavoratori della conoscenza Cgil, spiega al Salvagente: “Il punto essenziale è che rappresentano il settore più precario di tutto il sistema scolastico e questo è un primo dato. Noi sappiamo con certezza che oltre il 50% dei posti vengono assegnati in deroga, con le supplenze, rispetto alla totalità degli insegnanti di sostegno. Teoricamente sono posti che rispondono a dei bisogni sopravvenuti, a degli aggravamenti o nuove certificazioni, ma in realtà siccome da anni si conferma un numero che si aggira su circa 130mila docenti assunti in deroga, vuole dire che di fatto sono posti strutturali e funzionali ai processi d’inclusione”. Secondo Calza, la precarietà determina l’instabilità e la discontinuità dei processi formativi. Lo scorso maggio, con il decreto legge 71, il ministero dell’Istruzione ha provato a metterci una pezza cercando di rendere più snello e più rapido il sistema di reclutamento, allargando le maglie delle specializzazioni ammesse, creando però proteste tra gli stessi insegnanti. A fianco del percorso del Tirocinio formativo attivo (Tfa), un anno a carico dell’insegnante – con costi che arrivano a 4mila euro – previa selezione all’ingresso e inclusivo di formazione in classe, il governo ha deciso di aprire anche ai titoli di specializzazione provenienti dall’estero.
La scelta del via libera alle scorciatoie dall’estero
“Molti aspiranti docenti – spiega Manuela Calza – hanno seguito la via più semplice, più rapida delle specializzazioni acquisite all’estero. Sono specializzazioni che spesso vengono fatte esclusivamente on line, non includono il tirocinio obbligatorio che invece è previsto in Italia, ma soprattutto, in molte situazioni, vengono fatte in paesi dove non c’è la cultura e l’esperienza dell’inclusione scolastica che c’è da noi, quindi evidentemente sono difformi rispetto ai requisiti che vengono richiesti”.
Il rischio di valanghe di ricorsi
Queste abilitazioni normalmente sono soggette a un percorso di riconoscimento da parte del ministero, ma “nonostante da un anno a questa parte il dicastero abbia appaltato questo servizio a un’agenzia che si chiama Cimea, ancora non si riesce a rispondere a queste richieste di riconoscimento, che sono tante, si parla attualmente di 12mila” spiega Calza. E in questo modo si espone a una valanga di ricorsi che permettono di richiedere nel frattempo l’inserimento in graduatoria per le supplenze. Quest’anno proprio per evitare questa serie di ricorsi, è stato previsto che i lavoratori specializzati all’estero con titoli non ancora riconosciuti, vengano comunque inseriti a pettine nelle graduatorie provinciali per le supplenze (Gps), con diritto di stipula di contratto a tempo determinato, esattamente come gli altri lavoratori che però hanno un titolo riconosciuto e acquisito attraverso i percorsi Tfa.
La rabbia degli insegnanti scavalcati
E in diversi casi questo ha creato proteste e rabbia in chi insegna sostegno da anni e si è visto improvvisamente scavalcato in graduatoria, come Serena Maiorana: “Io quest’anno insegnerò cucina part-time all’alberghiero di Paternò, a decine di km da casa. Vivo in centro a Catania, da ormai tre anni lavoravo senza problemi in zona, come docente di sostegno specializzata, sempre con incarichi annuali. Ero molto alta in graduatoria quindi a me era sempre toccata la prima preferenza espressa tra 150. Quest’anno invece mi è toccata proprio la centocinquantesima. La graduatoria è stata totalmente stravolta e lo sarà ancora di più nei prossimi due anni. In questi mesi centinaia di ricorsi sono stati presentati al Tar del Lazio su questo tema, tutti rigettati nella fase cautelare. Come comitato docenti di sostegno stiamo ricorrendo al Consiglio di Stato e al Presidente della Repubblica”.
La “sanatoria”
Oltre a questa scorciatoia, che l’esperta della Cgil chiama “sanatoria”, il ministero ne ha attivata un’altra: consentire ai docenti che hanno effettuato almeno 3 anni di servizio su sostegno, senza specializzazione, di avviare un percorso di 30 crediti formativi, (che alcuni istituti on line promettono di rilasciare in poche settimane) quindi estremamente abbreviato rispetto agli altri, per entrare in prima fascia. “Riteniamo che non si possa davvero risparmiare sulla formazione perché la professionalità del docente e in particolare quella degli insegnanti di sostegno è una professionalità di alto livello che richiede una formazione che abbia tempi e strumenti” commenta Manuela Calza.
La solita guerra tra poveri
“Molti miei colleghi si lamentano dell’ultimo decreto – sostiene Stella, una docente di sostegno di ruolo a Roma, che preferisce rimanere anonima – ma alla fine è la solita guerra tra poveri. Ogni tot anni cambia il sistema di reclutamento o di attribuzione punteggio per le graduatorie, e quelli che sono passati per il sistema precedente si arrabbiano. Invece, si parla troppo poco delle condizioni in cui lavoriamo”. Secondo Stella, tra i problemi, c’è una scarsa considerazione dell’insegnante di sostegno da parte dei colleghi, nonostante sulla carta sia scritto altro: “Per legge noi siamo di sostegno alla classe, non al singolo, tanto che tecnicamente siano contitolari della cattedra. Ma poi, non solo non veniamo mai coinvolti dal collega in materia per quanto riguarda gli studenti che non siano quelli con disabilità, ma spesso neanche abbiamo una vera e propria postazione. Una volta, un collega è entrato e ha usato la mia sedia come ripiano per lasciarvi il cappotto”. Secondo la professoressa, una formazione su come gestire i bisogni educativi speciali dovrebbero farla anche gli insegnanti che si occupano delle materie, “perché solo così il rapporto tra bambini con bisogni speciali, compagni di scuola, professori di sostegno e su materia, diventa un circolo virtuoso che migliora la vita di tutti”.
Il rapporto con le famiglie non è semplice
Anche il rapporto con le famiglie non è semplice: “Spesso, soprattutto all’inizio, è conflittuale. Non sono pochi i genitori che pensano di conoscere il nostro lavoro meglio di noi”. Stella, però, riconosce che in alcuni casi i supplenti di sostegno non sono formati come dovrebbero e che finiscono nelle scuole più per necessità di lavorare che per passione. Per Manuela Calza, “anche questa è una rappresentazione dell’Italia a più velocità. Infatti, nelle regioni dove c’è un mercato del lavoro che offre delle maggiori opportunità, c’è carenza di insegnanti, perché evidentemente purtroppo a volte insegnare è un ripiego, ma non per la professione in sé”. E lo è anche perché a fronte di un percorso, come abbiamo visto, a ostacoli verso la stabilizzazione, gli stipendi sono bassi: “Se noi confrontiamo – spiega l’esponente della Flc-Cgil – non dico gli insegnanti italiani rispetto agli altri colleghi europei, il che sarebbe un paragone impietoso per noi, ma addirittura con il resto della pubblica amministrazione a parità di titolo di studio, abbiamo stipendi decisamente molto più bassi. Un docente in Italia inizia con 1.200-1.300 euro. Stipendi che sono inadeguati rispetto ai requisiti richiesti per l’accesso”.
Un dato che non giustifica la mancanza di passione e di applicazione in ruoli delicati come il sostegno a bambini e ragazzi con disabilità, ma che per lo meno aiuta a comprendere la complessità del quadro generale ed evitare di puntare il dito su una categoria come responsabile di tutti i problemi della scuola.