Caporalato, l’indagine sull’allevamento avicolo ad Asti è solo la punta dell’iceberg dello sfruttamento al Nord

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La procura di Asti apre un’inchiesta su un allevamento avicolo della zona, l’azienda agricola San Pol, accusata di usare lavoratori in nero, pagati 4-5 euro per ogni tir caricato di pollame. Letizia Capparelli, Segretaria provinciale della Flai Cgil, ci racconta un sistema che ha analogie anche in altre zone di produzione pregiata del settentrione

A fine giugno ha fatto scalpore il caso di Satnam Singh, bracciante irregolare indiano, morto dopo aver perso un braccio nei campi di Latina e essere stato abbandonato dai datori di lavoro a casa. Pochi giorni dopo, la procura di Asti apre un’inchiesta su un allevamento avicolo della zona, l’azienda agricola San Pol S.an.c di Calliano (At). L’accusa è quella di utilizzare lavoratori in nero, pagati 4-5 euro cada uno per ogni tir caricato di pollame. Abbiamo contattato al telefono il titolare Salama Shaaban Hemdan Abdelmottal, che ci ha detto che “la società agricola è chiusa da due anni”. Allo stesso indirizzo oggi risulta la società agricola La collina, registrata dallo stesso Salama Shaaban Hemdan Abdelmottal. Abbiamo chiesto a Letizia Capparelli, Segretaria provinciale della Flai Cgil, da cui è partita l’inchiesta, di raccontarci meglio.

Capparelli, le indagini sono partite anche grazie alle vostre segnalazioni.
Sì, noi abbiamo fatto una segnalazione perché come organizzazione sindacale potevamo arrivare fino a un certo punto, perché questi erano tutti lavoratori in nero.
Tutti?
Da una visura camerale e da un controllo, poi con la guardia di finanza, non risultano dipendenti in questa azienda e quindi non era più una rivendicazione solo economica, c’era una violazione di normativa.  Risultavano solo i due titolari. È folle, dal momento che comunque ci sono delle movimentazioni abbastanza importanti. Questi lavoratori ci hanno comunicato che caricavano dei tir di polli.
Come avete raccolto le segnalazioni?
Da noi è venuto un lavoratore che dopo un mese e mezzo era stanco di non essere pagato e il pagamento era veramente irrisorio, imbarazzante anche solo a dirlo, perché i tir venivano pagati 20 euro da dividere in 5.
Per caricare un tirdavano 20 euro?
E se ne facevi 2, 40 euro, se ne facevi 3, 50. Tiravano pure sul pagamento. E dovevano andare avanti finché non riempivano i tir, quindi a volte partivano alle 4 del mattino e finivano magari alle 10 del mattino di caricare. E poi c’era la rimozione di tutte le carcasse di quelli che erano morti.
Come operavano?
Li mettevano via, li smaltivano con delle cariole. Noi abbiamo visto delle immagini di queste montagne di cadaveri, di carcasse che loro caricavano con le cariole e poi andavano a buttare. Stavano magari lì anche tre giorni.
Morivano durante il caricamento nel tir oppure li trovavano già morti?
Erano già morti, qualcuno magari era perché era malato, infatti ci raccontavano di odori molto forti e non avevano sfortunatamente neanche i dpi, non avevano mascherine o stivali.
L’azienda conferiva i polli a un grosso gruppo industriale?
Sì, perché il movimento è molto importante. Già solo le carcasse variavano dai 1500 ai 2500. Si immagini quanti invece ne davano via. Il capannone è molto grande. Ovviamente, la cosa più importante che emerge è una…
Cosa?
È che questi probabilmente per rimanere sul mercato dovevano comunque, detto che sono colpevoli, su questo non c’è nessun dubbio, tentavano di risparmiare sulla qualunque. Quindi mi immagino non solo sul benessere animale, perché è un mercato talmente sottile il guadagno che possano loro avere, che vanno a risparmiare ovviamente su quello che possono.
Ma poi spetta al destinatario selezionare i capi da mandare nei supermercati.
Ad oggi c’è solo la tracciabilità, non è che c’è il percorso di come è stato gestito tutto l’allevamento. Non è che l’azienda grande, la grande distribuzione viene a fare un controllo come succede in altre aziende, dove viene a controllare chi fa l’audit.
Pesano le richieste economiche delle aziende committenti.
Io ho seguito aziende che facevano la lavorazione delle mozzarella. Per rimanere in piedi sono costrette a giocare sulla quantità e quindi partecipare a quei bandi dove tu vinci la fornitura della tua mozzarella alla grande distribuzione e non hai marginalità, non ci stai dentro, ma lo fai per rimanerci, per poter lavorare.  Quindi alla fine il prezzo lo fa la grande distribuzione, in questa roba qui la responsabilità ce l’ha la grande distribuzione.

Loro facevano lavorare i richiedenti asilo in nero.
Questi lavoratori, non solo avevano il problema che non erano pagati, loro avevano bisogno di avere una certificazione che stessero lavorando per poter continuare a stare qui, quindi erano veramente in difficoltà. Quello che abbiamo potuto fare con un progetto che si chiama Common Ground in collaborazione con la regione Piemonte, è accompagnarle a fare la denuncia e poi così con l’ispettorato siamo riusciti a certificare che loro avevano lavorato.
Qual era la funzione dei caporali in questa storia?
C’era un lavoratore egiziano in difficoltà che aveva fatto una richiesta di ricongiungimento con la moglie, e il  caporale di tutta questa vicenda, egiziano anche lui,  lo minacciava, quando provava a chiedere denaro, anche andando sotto casa sua
Quanti erano i lavoratori sfruttati?
Quelli che sono venuti da noi in totale erano 5. Ruotavano con altri gruppi di 5.
Quando avete fatto la denuncia?
Questa denuncia noi l’abbiamo fatta ad agosto 2023. Ci sono pochi agenti, sicuramente. ci sono varie denunce che noi facciamo, perché la tragedia che è accaduta a Satman (il bracciante di Latina abbandonato a casa dai datori di lavoro e morto dopo aver perso un braccio, ndr) ha sicuramente sollevato un tappeto sotto cui c’è sempre stata la polvere. A Carmagnola è morto un lavoratore (nel 2015).
Ma se non c’è il morto sembra che tutto vada bene.
Un paio d’anni fa, un lavoratore che era stato picchiato sempre nell’Astigiano perché aveva chiesto un’ora di permesso per fare il permesso di soggiorno. Allora se non muore il lavoratore non è così eclatante, ma fatti di questo genere da noi succedono continuamente. Infatti non è un fenomeno che riguarda solo il sud, anzi, nell’Astigiano, piuttosto che nel Cuneese, piuttosto che nel Pinerolese, perché gli allevamenti di vacche nel Pinerolese ci sono, e utilizzano gli indiani perché hanno una sensibilità particolare nei confronti dell’animale. Ma vivono in condizioni pazzesche.
Non solo in Piemonte?
Da noi è venuto un lavoratore a denunciarci che lavorava in una ditta di Pollame, nel Bergamasco. Però il prete, per dargli una mano, gli ha portato il materasso perché lui dormiva nel pollaio e dormiva a terra.  È normale che un lavoratore sia pagato 4 euro l’ora per raccogliere l’uva e poi quella bottiglia è venduta 35 euro?

E ora anche il Nord si scopre vulnerabile

Lo sfruttamento nei campi è stato associato storicamente al Sud e alla presenza di organizzazioni criminali radicate, ma le inchieste e le morti raccontano di una realtà che riguarda anche il Settentrione. Lo scorso ottobre il Salvagente se n’è occupato a partire dalla morte di Ioan Avarvarei, rumeno 37enne, crollato lo scorso 25 agosto nelle campagne di Cazzago San Martino, tra le vigne del sempre più popolare vino Franciacorta.

Nell’immaginario collettivo, quando si pensa al caporalato è probabile che la prima cosa che venga in mente è un campo bruciato dal sole nel Meridione e una gestione della filiera sporca in mano alla mafia. Per tanto tempo, che lo sfruttamento del lavoro riguardasse anche il sistema produttivo del Nord Italia, è stato un grande rimosso. Fino a quando non sono intervenute inchieste, arresti e morti, anche al di sopra di Roma a svelare quello che solo chi non vuol guardare non vede: il caporalato è un fenomeno che non conosce né confini né differenze culturali, ma segue solo le regole del profitto illecito.

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La fragilità del sistema Lombardia

Lo scorso luglio, l’associazione Terra!, nel rapporto “Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia”, ha indagato lungo le filiere dei meloni, delle insalate in busta e dei suini. “Le forme di sfruttamento individuate in Lombardia sono più sofisticate di quelle del Sud Italia o in alcuni stati Ue del Mediterraneo, dove Terra! ha indagato, e che si sono evolute, perché esse riescono ad aggirare i controlli e a mostrare una parvenza di legalità” spiegano gli autori del rapporto. La Lombardia, con una produzione agro-industriale del valore di oltre 14 miliardi di euro, è la prima regione italiana nell’agro-alimentare. Qui la narrazione del lavoro in agricoltura è spesso schiacciata sulle difficoltà di trovare manodopera disponibile, che sia soprattutto specializzata. Un elemento di forte criticità, su cui Terra! fa chiarezza, raccontando la realtà del reclutamento agricolo, le condizioni di lavoro, le difficoltà di fare agricoltura oggi e i vuoti creati dalla fragilità dei servizi pubblici e colmati dai soggetti intermediari.

Le coop spurie

“A distanza di anni e da ben altre latitudini, con questo lavoro sul campo, abbiamo la prova che il costo del lavoro sia ancora il più sacrificabile dell’intera filiera – dichiara Fabio Ciconte, direttore dell’Associazione Terra! – Abbiamo la conferma di quanto il lavoro grigio in agricoltura sia praticamente la regola. Le cooperative spurie, molto usate nella produzione dei meloni, rappresentano le nuove forme di sfruttamento, i contratti multiservizi sono la scorciatoia che in molti usano nel settore dei suini, per arrivare infine ai turni estenuanti della quarta gamma, dove i ritmi industriali costringono gli operai a non fermarsi mai”. E quando non ci si ferma mai, soprattutto sotto un caldo che sfiora i 40 gradi, si rischia di morire, com’è successo, appunto, a Ioan Avarvarei.

La morte di Ioan

“Si è trovato a lavorare alle 2 del pomeriggio in un sabato di agosto a 38°, e non doveva esserci” ci dice il segretario della Flai Cgil di Brescia, Enrico Nozza Bielli. Ci sarebbero i controlli, gli ispettori del lavoro. “Ma la campagna non è una fabbrica in cui c’è un orario, c’è la visibilità dei lavoratori – continua Nozza Bielli – le vigne sono sparse nelle colline, quindi per trovare la gente che noi andiamo a visitare nella campagna per portare dell’acqua, devi lasciare il pullman a distanza è cercare di raggiungere la vigna”.

Il caporalato in Franciacorta

Una differenza tra zone come quella della Franciacorta e molte campagne del Sud, è anche l’assenza di ghetti, dovuta soprattutto al tipo di flussi di manodopera. “In Franciacorta durante la vendemmia lavorano almeno 4mila persone, di cui i tre quarti, se non di più, sono pendolari dell’Est che vengono apposta per la stagione. Hanno contratti più o meno regolari, ma tanto lavoro grigio (ore non pagate, pause non concesse, ndr). Non conoscono la lingua e neanche la normativa”. Arrivano soprattutto da paesi comunitari, come la Romania, Bulgaria, Polonia, e pertanto non hanno bisogno di permessi di soggiorno. “Ci sono queste aziende di servizi vitivinicoli che si sono strutturate. Hanno qualche dipendente straniero stanziale, per intenderci. Portano i lavoratori dall’estero con il pullman. Questi rimangono poche settimane, fanno il lavoro, e vengono pagati quando sono tornati a casa. E da lì sapere quante ore li pagheranno, o capire se vengono pagati correttamente è un bel quesito. In generale, è matematico che li paghino meno di quello che hanno lavorato”. Come segnalato dalla stessa Flai Cgil nella zona del Franciacorta, in alcuni casi le visite mediche obbligatorie in fase di assunzione vengono svolte in maniera sbrigativa e soprattutto davanti a una “mannaia”: se non stai bene, torni nel tuo paese. E nessuno, dopo un lungo viaggio, vuol tornare indietro senza aver lavorato. “E parliamo di un lavoro molto duro, che viene pagato poco, al massimo 8 euro lordi l’ora, dunque poco appetibile per i giovani italiani” aggiunge Nozza Bielli.

I pullman dall’Est

Il sistema dei pullman dall’Est permette alle aziende non solo di risparmiare, ma di evitare anche recriminazioni sindacali. “Solo una volta siamo riusciti a organizzare 50 senegalesi che chiedevano le ore che mancavano al pagamento. E non è un caso che fossero senegalesi, e non lavoratori pendolari. Poi è arrivato il Covid, i processi si sono rallentanti e stiamo aspettando ancora che le persone vadano a giudizio. Ma da allora di senegalesi nei campi non se ne sono visti più e gli stanziali sono stati sostituiti dai pendolari”.