Non stiamo parlando delle ricette statunitensi che ci fanno sorridere ma di quanto nascosto tra gli ingredienti di quelle offerte dai supermercati italiani. Il nostro test su 20 pizze surgelate e solo una sfiora l’ottimo…
Da una grande pizza derivano grandi responsabilità. Ci perdoneranno i cultori Marvel, ma la frase resa celebre dai fumetti e dai film di Spider Man (“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”) riesce bene a inquadrare lo status della pizza nell’alimentazione e nello stile di vita. La pizza è simbolo di buon cibo e italianità, di dieta mediterranea, alimento-icona entrato nell’immaginario collettivo globale, gustata ovunque, distorta in tutto il mondo – come non ricordare le polemiche sulla pizza all’ananas? – e compresa a tutte le latitudini nel momento in cui la stessa parola “pizza” non conosce confini linguistici. È veicolo di socialità, l’ingrediente di ogni riunione in famiglia e fra amici.
Spazio alla praticità
L’arrivo delle versioni surgelate poi ha aggiunto un bonus in più: è già pronta, basta metterla in forno. Una comodità non da poco che sembra apprezzata dai consumatori italiani. Secondo il rapporto annuale sul consumo di prodotti surgelati in Italia 2022, dell’Istituto italiano alimenti surgelati (Iias), il consumo pro-capite di surgelati ha raggiunto i 16,8 kg a persona. Al quarto posto dopo vegetali, prodotti ittici e patate si piazzano proprio le pizze surgelate, con consumi che hanno superato le 66mila tonnellate, in calo però del 7% rispetto al 2021.
Ma quanto si discosta la margherita surgelata dalla sua ricetta originale? E quanto un prodotto che nasce semplice e povero, come racconta il mito della pizza, si allontana dal suo profilo per diventare una voce fra mille dei prodotti industriali ultraprocessati?
Il test su 20 pizze surgelate
Abbiamo cercato di rispondere a questa domanda mettendo a confronto 20 pizze surgelate
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con la ricetta tradizionale: farina di grano tenero, lievito di birra, acqua, sale e farcita con pomodori pelati, olio extravergine di oliva, basilico fresco e mozzarella. Siamo andati alla ricerca di ingredienti che si discostano dalla ricetta e rimandano ai processi di lavorazione e trasformazione dei prodotti alimentari, per capire quanto viene “processata” la ricetta di partenza. Il risultato è una valutazione che spazia da un quasi ottimo (giudizio sfiorato solo da un prodotto) a mediocre con una serie di valutazioni intermedie
Ecco l’elenco delle pizze testate
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Che c’entrano margarina e cocco?
Le pizze che non raggiungono la sufficienza sono quelle che aggiungono ingredienti sgraditi o tipici di lavorazione industriale – margarina, glutine di frumento, grasso di palma, correttori di acidità – che nulla c’entrano con la ricetta originale. I processi industriali e l’aggiunta di ingredienti e additivi, più che la qualità nutrizionale degli alimenti, sono al centro della classificazione alimentare Nova, una griglia di valutazione proposta dagli studiosi brasiliani che definisce l’identikit dei cibi ultraprocessati. Si tratta di “formulazioni industriali” con molti ingredienti che si trovano solo nei prodotti ultralavorati, sottoposti a molteplici processi (precotti, disidratati, reidratati, estrusi, trasformati meccanicamente). Contengono aromi, coloranti, additivi, coadiuvanti tecnologici, tutte sostanze assenti nelle cucine casalinghe.
L’identikit dei prodotti ultraprocessati
Come scrivono i ricercatori brasiliani “il cibo confezionato, di marca, pronto da mangiare, da bere e da scaldare, i prodotti ‘veloci’ o ‘convenienti’ sono diventati sempre più importanti nelle forniture alimentari e nei modelli alimentari dei paesi ad alto reddito”. Non è una trasformazione indolore, perché di pari passo sono aumentati i tassi di obesità e diabete. I cibi ultraprocessati sono una “bomba” sulla salute umana: secondo diverse ricerche sono associati a rischi quali obesità, cancro, diabete di tipo 2, sindrome metabolica. Una meta analisi del 2021 (pubblicata da Cambridge University Press per conto della Nutrition Society) ha associato il consumo di alimenti ultraprocessati a un aumento di malattie non trasmissibili, sovrappeso e obesità, e il consumo più alto risulta associato a un aumento del rischio di mortalità del 25%.
La bisnonna lo riconoscerebbe come cibo?
Il cibo ultraprocessato è accusato inoltre di creare dipendenza. Provocherebbe desiderio intenso, sintomi di astinenza, uso continuato nonostante conseguenze negative sulla salute, rilascio di dopamina, attivazione delle stesse aree cerebrali che si “illuminano” con la dipendenza dalle droghe. Una meta analisi del 2022, ricorrendo alla Yale Food Addiction Scale (tecnica di misurazione che valuta se una persona segue comportamenti alimentari che rimandano a una dipendenza) suggerisce che il 20% degli adulti sia dipendente da cibo, con comportamenti più diffusi fra coloro che hanno problemi di binge eating, il disturbo da alimentazione incontrollata. Il tema della dipendenza da cibo ultraprocessato è oggetto di dibattito (si può essere dipendenti da qualcosa come il cibo, essenziale per vivere?) ma la psicologa clinica dell’Università del Michigan Ashley Gearhardt obietta: “Gli alimenti che sono molto ricchi di grassi e carboidrati, in una sorta di rapporto uguale, non esistono in natura”. Sono insomma “progettati” per apparire in un certo modo e diventare quello che sono. Non a caso, fanno leva spesso su un marketing accattivante e aggressivo. In soccorso può arrivare il buon senso. Diceva Michael Pollan, giornalista e autore di libri inchiesta sul cibo: “Non mangiare niente che la tua bisnonna non riconoscerebbe come cibo”.