Prezzi alti anche al discount: così finisce l’ipocrita era dell’abbondanza

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Il sistema agroalimentare basato sul sottocosto costruito sulle spalle dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente sta esplodendo. Lo sostiene, nel suo ultimo libro, Fabio Ciconte che ragiona anche sul futuro dei consumatori

 

Dietro la fine del basso costo al supermercato, c’è anche un cambio di paradigma che riguarda la geopolitica internazionale e che, soprattutto, chiede ai cittadini di mutare il proprio modo di intendersi come consumatori. A pensarlo è Fabio Ciconte, direttore dell’associazione ambientalista Terra! e autore del libro “L’ipocrisia dell’abbondanza. Perché non compreremo più cibo a basso costo” (Editori Laterza, 174 pagine, 17 euro). “È cambiata la fase, ed è dovuta al fatto che stiamo dentro una serie di crisi. Da una parte c’è la crisi energetica, o meglio la coda della crisi energetica, poi ci sono inflazione e cambiamenti climatici. Fattori che hanno portato in questi mesi all’aumento esponenziale dei costi; quindi produrre ha voluto dire spendere di più e se, in un primo momento, la grande distribuzione ha provato a reggere il colpo, adesso la situazione è totalmente ribaltata”.

Le ragioni del boom dei prezzi

Secondo Ciconte, il problema è enorme, perché nel momento in cui i prezzi aumentano, difficilmente poi si ritornerà a quelli di partenza, nonostante le quotazioni del gas siano diminuite. “Le motivazioni – prosegue – sono comprensibili. Prendi un’azienda qualunque che ha avuto dei costi aggiuntivi in questi anni: energetici e di immagazzinamento, magari per la refrigerazione, materie prime, imballaggi, plastiche, trasporti. Poi non è che alla prima bolletta che va meglio, riescono ad abbassare i prezzi. Ci vuole un bel po’ di tempo, e non credo si ritornerà mai ai livelli di prima”.

La guerra del grano

Secondo Ciconte, la “guerra del grano” scoppiata in seguito all’invasione dell’Ucraina è emblematica di questo cambio di paradigma: “Quello che è successo è una delle più grandi prese in giro della politica europea degli ultimi anni. Ci hanno fatto pensare che 25 milioni di tonnellate di cereali bloccati nei porti ucraini arrivassero a determinare una crisi alimentare globale e questo spettro ha determinato due cose. La prima, sbloccare questo grano con l’idea che i cereali andassero a finire ai paesi dell’Africa subsahariana, che erano quelli più in difficoltà. In realtà là ci è andato il 3% di quel carico, la restante parte è andata a finire in Italia, in Turchia, in Olanda, in Cina, cioè in quei paesi dove la produzione zootecnica è incredibile e quindi ha bisogno di quei cereali”.

La scusa per tornare indietro sulle politiche green

La seconda cosa che è successa, secondo l’autore de “L’ipocrisia dell’abbondanza”, è che “questo paventare una crisi alimentare globale ha portato l’Europa a cominciare a riparlare di sovranità alimentare, a dire che dobbiamo essere autosufficienti dal punto di vista alimentare, anche se in realtà non c’era un vero pericolo di autosufficienza alimentare, di approvvigionamenti, di cereali. In sostanza, è servito a interrompere tutte le politiche ecologiche che stavano riguardando l’agricoltura, invocando il ritorno al produttivismo spinto”. Una scusa perfetta, insomma, per porre ostacoli alla direttiva per il regolamento pesticidi, alla strategia sulla biodiversità, al Farm to Fork e così via.

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“Un sistema che non sta in piedi”

Secondo Ciconte, però, quello è un modello che non funziona: “Noi abbiamo vissuto un’epoca in cui il ruolo del sottocosto nella tenuta sociale del paese è stato determinante. Nel momento in cui questa scontistica finisce, mette a nudo un sistema che non sta in piedi, per cui persino persone con un salario normale vanno a fare la spesa al discount”.

Lo sfruttamento alla base della piramide

Un sistema che si è basato sul non contabilizzare le esternalità negative, cioè quelle sociali e quelle ambientali. “Lo sfruttamento, il caporalato, il riscaldamento globale, l’inquinamento, il consumo di suolo. E qui c’è l’ipocrisia: questo cibo non era davvero a basso costo” continua Fabio Ciconte.

Un terzo delle emissioni dipendono dal sistema alimentare

“I sistemi alimentari sono responsabili dal 27 al 37% del totale delle emissioni, e quindi hanno una responsabilità enorme da questo punto di vista. Noi stiamo pagando i soldi delle tasse per la Politica agricola comune per sostenere un’agricoltura industriale che crea danni al pianeta”. E a questi danni, che sono sempre più evidenti, per esempio sotto forma di effetti devastanti dei cambiamenti climatici, si risponde solo con la logica della solidarietà pelosa, della carità. Le raccolte fondi, gli aiuti a chi è stato tagliato fuori da un’esistenza dignitosa.

I limiti delle politiche di beneficienza

“Quello che sta succedendo – continua il direttore di Terra! – è che ci si sta spostando molto sulle politiche della carità. Prendiamo per esempio l’ultima manovra finanziaria. Hanno tolto un miliardo al reddito di cittadinanza, di questi la metà, circa 500 milioni, li hanno messi per il fondo per l’acquisto di beni alimentari di prima necessità. Bisogna stare attenti perché non dobbiamo farci travolgere da questa idea: è giusto aiutare le persone con i pacchi alimentari ma non dimenticandoci che bisogna tornare a occuparci di politiche attive del lavoro. Siamo in una fase di recessione in termini di battaglia sociale. Uno si chiude nei propri mondi e dà una mano come può”.

“La figura del consumatore consapevole va sostituita con quella del cittadino”


Secondo Fabio Ciconte, anche per questo, la figura del consumatore consapevole, dopo aver perso la dimensione politica e collettiva che la spingeva fino a qualche decennio fa, è diventata problematica: “Diversamente da quello che era il consumatore degli anni 90, che stava all’interno di movimenti altermondialisti in cui il boicottaggio, per esempio, obbediva a una logica politica, abbiamo trasformato il nostro essere solo in quello del consumatore, che col suo agire quotidiano può salvare il mondo. Oggi è rimasto l’individuo solo, tra gli scaffali dei supermercati a fare la sua rivoluzione culturale. Si guardi la marea di influencer che ti spiegano come fare il sapone in casa, come risparmiare acqua mentre ci facciamo la doccia, e così via. Come se tutta la responsabilità fosse in capo al singolo. Questa cosa qui è funzionale a togliere lo sguardo dalla responsabilità dei governi”.

“Per esempio – aggiunge Ciconte – si dice ‘bisogna mangiare meno carne’. Giustissimo, ma perché non si dice ‘bisogna produrre meno carne’?”. Secondo l’autore la risposta è semplice: “Perché se la richiesta è di mangiare meno carne, all’industria e alla politica cambia poco e nulla, se invece ci si sposta sul piano della produzione, allora servono leggi, normative, divieti, e le cose cambiano, eccome”.

Un nuovo paradigma

Perché un nuovo paradigma, più equo, si imponga, bisogna anche liberare il cittadino dal senso di colpa di abitudini di acquisto insufficienti a fare la propria parte. Anche perché c’è un dato di realtà da cui non ci si può più sottrarre: “Sono sempre di più le persone che non possono scegliere di consumare. E quindi la questione del consumo consapevole rischia di diventare una roba un po’ classista, da benestanti. Chi non riesce a comprare prodotti equosolidali, biologici, certificati, perché al di fuori della portata delle proprie tasche e del proprio bilancio familiare, finisce con il sentirsi colpevole. Per questo, io dico, smettiamo di considerarci consumatori, ritorniamo ad essere cittadini, parte di una collettività che magari si arrabbia pure, e si organizza per cambiare le cose a livello politico”.