Certificazioni più sulla carta che in campo, organismi di controllo che si fanno la guerra tra loro, ispezioni telefonate…. Come dimostra l’inchiesta di copertina del Salvagente è forse il momento per il biologico di cambiare le regole per evitare di prestare il fianco s una caduta di credibilità che potrebbe far ritornare indietro di anni un settore protagonista di un grande successo
Nei suoi 32 anni di vita, il Salvagente ha mandato in laboratorio migliaia di prodotti e tra questi centinaia erano certificati bio. E mai una volta, se si escludono sporadici casi di contaminazione accidentale, ha registrato frodi o truffe intenzionali in questo settore.
È il caso di partire da qui – a scanso di equivoci – per interpretare la scelta dell’inchiesta di copertina del nuovo numero del Salvagente. Non ci siamo mai iscritti tra quanti – come la senatrice Elena Cattaneo – hanno sempre bollato il biologico come un mondo truffaldino o come una sorta di medioevo tecnologico. E non per partito preso – seppure la salvaguardia dell’ambiente da un carico eccessivo di chimica di sintesi, ci sembri già un obiettivo più che degno -, ma per quello che troviamo sugli scaffali test dopo test.
Se il Salvagente ha deciso – e non da questo numero – di sollevare il velo su un sistema di controlli che appare francamente insufficiente a garantire un settore come quello italiano, non è dunque perché siamo convinti che alla fine tra biologico e convenzionale non ci siano differenze, se non di prezzo. Al contrario. È il timore che basti uno scandalo per far fuori un’esperienza come quella del nostro paese che ci muove. Il caso Fileni, con le denunce fondate o no che siano della coraggiosa inchiesta di Report, è un segnale che non può essere ignorato.
Visitare un’azienda una volta l’anno, come ci testimoniano i certificatori ascoltati da Lorenzo Misuraca nell’inchiesta di copertina di marzo, dividendo il proprio già scarso tempo tra controlli documentali e ispezioni in campo, non ci sembra sufficiente per scongiurare questo rischio. Allo stesso modo appare molto pericolosa la guerra dei prezzi che si è avviata tra organismi di controllo e il fatto che i tecnici possano trasferirsi da un ente all’altro portandosi dietro molti clienti, in un rapporto incestuoso tra controllato e controllore.
Sottovalutare i segnali sarebbe non solo miope ma colpevole in caso di “incidenti”.
Anche perché, come leggerete nello sfoglio di copertina, tra gli osservatori interessati ci sono quanti della chimica fanno un uso quantomeno disinvolto, se non criminale. C’è Big Pesticide, abituata a giocare con le regole per continuare a fare affari d’oro con molecole pericolose per l’ambiente, per chi le usa e per chi consuma i prodotti trattati. E che in Europa è pronta a tutto per non far diminuire i propri fatturati, annacquando le dichiarazioni di principio del Farm to fork. Cosa che, a giudicare dai dati d’uso della chimica in campo, sta riuscendo perfettamente a queste potenti lobby.
Immaginiamo quante di queste multinazionali sarebbero felici di soffiare sul fuoco di un eventuale scandalo che si dovesse abbattere sul mondo del biologico. Relegandolo di nuovo a un consumo d’élite, proprio nel momento in cui sembra stia diventando protagonista, grazie alle proposte di marchi privati, grandi produttori, perfino hard discount.
Certo, non sfuggono agli osservatori le differenze con le origini di questa filosofia agricola e con i pionieri “duri e puri” dei primi anni del bio. Ma criticare l’allargamento di queste esperienze, l’ingresso nell’organico di grandi industrie che pure hanno fatto la loro fortuna col convenzionale, sarebbe non solo settario ma perfino autolesionista. Chi potrebbe trovare criticabile il fatto che in Italia il 17% delle superfici sia coltivato a bio (con tutto il carico di veleni che questo ci risparmia)?
Nessuno, a meno che un tale successo non finisca per sacrificare le garanzie che debbono tutelare chi fa agricoltura e allevamento bio seriamente e non è disposto a giocare con il suo (e il nostro) futuro.