Svezzamento (e non solo), come affrontare i capricci a tavola?

SVEZZAMENTO

Lo svezzamento, con il passaggio dal seno alle prime pappe, è un momento simbolico di separazione dalla mamma. E non di rado ci si trova di fronte a grandi crisi e a rifiuti di alcuni cibi. Cosa fare? Ne abbiamo parlato con la psicologa Valentina Carretta.

Uno scatto di rabbia e il cucchiaio vola verso la parete. Il disgusto verso un piatto di broccoli nel migliore dei casi può esprimersi con un sonoro “NO”. Nel peggiore invece la cena viene interrotta da urla, pianti e contorsioni varie del corpo del bambino. Capricci a tavola? O espressione delle proprie emozioni?

Ne abbiamo parlato con la psicoterapeuta e psicologa clinica, socio SIRIDAP (Società Italiana di Riabilitazione Interdisciplinare Disturbi Alimentari), Valentina Carretta autrice di libri legati al tema del rapporto con il cibo e i disturbi alimentari.

Dottoressa Carretta, partiamo dalla delicata fase dello svezzamento. Una novità per il bambino con tutte le sue attrattive e disgusti. E anche un momento di nuova relazione con il genitore. Qual è il ruolo della mamma e del papà in questa fase?

Il ruolo di madri e padri è molto prezioso in questa fase, ma non solo in questa, perché sono chiamati a legittimare, pur nella fatica, questa separazione. Lo svezzamento è sì un momento fisiologico, ma soprattutto un passaggio simbolico importante in cui mamma e bambino si separano, in cui il piccolo viene autorizzato a “muovere i suoi passi nel mondo” ovvero a staccarsi dall’iniziale simbiosi con la mamma. Lo svezzamento non è solamente il momento in cui il piccolo passa dall’alimentazione al seno alle pappe, al cibo adulto, ma un passaggio che avviene diverse volte nella vita: il primo giorno di asilo, la prima gita scolastica, la prima notte fuori casa… Tutte quelle prime volte in cui il genitore è chiamato a fare un passo indietro affinché il figlio possa fare un passo avanti e confrontarsi, sperimentarsi, con il mondo al di fuori dal suo stretto nucleo familiare.

In questo ruolo c’è differenza tra mamma e papà?

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C’è differenza, ma non nel senso dell’affetto e dell’amore che il piccolo prova per un genitore o per l’altro. La madre porta in grembo il figlio e poi lo allatta al seno, c’è un fortissimo coinvolgimento del corpo e questo ha un effetto, nel bene e nel male. Ad esempio, se la mamma è nervosa, il bambino lo avverte subito e può far fatica ad attaccarsi al seno e cercare con lo sguardo il papà perché lo porti via da una situazione che sente come disagevole. C’è una sana differenza nel legame che il piccolo sviluppa con la madre e con il padre, quella differenza che caratterizza ogni legame umano. Madri e padri sono caratterizzati da un simbolico diverso, da ruoli diversi, e, pertanto, il legame che si viene a creare con loro è differente, ha delle peculiarità che caratterizzano quella relazione.

Durante lo svezzamento come comportarsi rispetto al rifiuto di determinati cibi?

Interrogarsi! Jacques Lacan, psicoanalista e psichiatra francese, sottolinea come “il sintomo del bambino è al posto giusto per rispondere a quello che vi è di sintomatico nella struttura familiare” (Lacan, Due note sul bambino, 1987, p. 22) ed è per questo che ritengo fondamentale che i genitori possano domandarsi che cosa stia succedendo in quel momento se il bambino non mangia o fa pasticci con il cibo. La frase di Lacan ci porta ad interrogarci sul senso del comportamento del piccolo in relazione a quanto sta avvenendo nel mondo adulto: vi sono difficoltà di coppia? vi è un disagio del singolo (ad esempio, la mamma che, terminata la maternità, deve tornare al lavoro? il papà che ha cambiato lavoro ed è molto nervoso in quanto sotto pressione in ufficio?).

Il cibo è uno dei primi strumenti, insieme al pianto, che il bambino ha per mostrare un suo disagio, un suo malessere, ed il lavoro interpretativo dei genitori risulta molto importante per cogliere ciò che si nasconde al di là del cibo. Allo stesso tempo è bene sempre tenere in considerazione che anche i bambini hanno i loro gusti e le loro preferenze alimentari e, pertanto, un rifiuto può essere legato semplicemente a questo.

E se ci fosse un rifiuto sistemico di alcuni cibi?

L’importante e rigida selettività alimentare può risultare, a lungo andare, così severa da portare con sé una persistente incapacità di soddisfare le necessità nutrizionali e/o energetiche appropriate dalla quale ne consegue una significativa perdita di peso. Se ci trovassimo in questo caso, potremmo avere davanti a noi un disturbo denominato ARFID: disturbo da evitamento/restrizione dell’assunzione e quindi eventualmente sarebbe da valutare un consulto con uno psicoterapeuta esperto in disturbi del comportamento alimentare.

Cosa rappresenta il rifiuto di un cibo? Solo disgusto al palato?

Dipende. Il rifiuto alimentare, piuttosto che i pasticci con il cibo, sono una manifestazione soggettiva che può essere letta solo tenendo in considerazione uno scenario più ampio. A volte può essere disgusto per un determinato sapore, altre volte un modo di richiamare l’attenzione dell’Altro, oppure una modalità di mettere un freno all’invadenza dell’Altro e così via. In nessun manuale madri e padri troveranno la soluzione o la modalità giusta di essere genitori di quel figlio in quanto si tratta di un lavoro di costruzione che avviene giorno per giorno, interrogandosi sulle dinamiche che si osservano in famiglia; un gioco di squadra fra mamma e papà che hanno punti d’osservazione diversi e che è fondamentale possano integrarsi per costruire la genitorialità più adeguata per quel figlio, a seconda del momento specifico della vita che quel bambino sta attraversando.

Donald W. Winnicott, pediatra e psicoanalista britannico, ci insegna che basta essere un genitore “sufficientemente buono” ed è per questo che risulta importante che madri e padri si fidino delle proprie intuizioni e si confrontino spesso come coppia genitoriale per far fronte a quello che, insieme a governare e psicoanalizzare, Sigmund Freud definisce il “mestiere impossibile”: essere genitore.

“A tavola mio figlio fa sempre i capricci”… dottoressa ma cosa si intende per capricci?

Anzitutto partirei dal dire che i bambini hanno il diritto di fare i capricci, di dire la loro, anche se questo può essere faticoso, scomodo e frustrante da gestire per i genitori. Un bambino è un soggetto: ha i suoi pensieri e le sue emozioni. Hilde Bruch, psichiatra statunitense, nell’osservazione dei suoi pazienti sottolineava che “il bambino è considerato un bene prezioso cui si debbono le cure migliori, ma nel contempo gli si nega il riconoscimento della propria individualità” (Bruch, Patologia del comportamento alimentare. Obesità, anoressia mentale e personalità, 1977, p. 100) e questo, a lungo andare, può avere importanti conseguenze. Il bambino fa il bambino, non ci possiamo aspettare – e nemmeno chiederglielo – che stia seduto a tavola composto due o tre ore. Non lo può fare. Siamo noi adulti che dobbiamo misurare le nostre richieste. I bambini manifestano le loro emozioni come riescono, in maniera disordinata spesso. Hanno bisogno del nostro aiuto per nominare le loro emozioni, per imparare a conoscerle e a misurarsi con esse, non hanno certo bisogno invece della nostra incapacità di tollerare la frustrazione dinnanzi alla loro collera. Chi è allora che “fa i capricci”? Il bambino o il genitore?

Un errore da non fare?

Il cibo non è uno strumento di ricatto, teniamoci lontani da questa logica. Considerando che ciò che caratterizza i disturbi alimentari è un rapporto alterato con il cibo, possiamo ben comprendere come sia poco salutare contribuire ad alterare il naturale rapporto che un bambino ha con il cibo andando a inserire questo in un circuito di premi, punizioni e ricatti. Ci sarebbe poi anche da chiedersi che efficacia abbiano i ricatti e se, invece, non sia più utile, soprattutto sul lungo periodo, parlare con i bambini e aiutarli a comprendere l’errore che stanno facendo e il perché, affinché costruiscano strategie migliori la prossima volta.

Chi decide il menu a tavola?

Le decisioni vanno sempre e comunque prese dai genitori perché hanno una capacità decisionale e di analisi che un bambino non ha ancora sviluppato. Sicuramente il poterne parlare insieme per scegliere quale verdura preferisce il piccolo può essere importante e utile, tuttavia la decisione “si mangiano le verdure” va presa dal genitore. Andare incontro al desiderio del bambino e chiedergli, di tanto in tanto, cosa gradisce per cena può essere un modo di ingaggiarlo maggiormente attorno al tema alimentare, ma stando ben attenti a non eccedere per evitare che i figli possano trasformarsi in tiranni.

Dirò forse una cosa impopolare, ma la relazione fra genitori e figli non è democratica, ma è gerarchica, ed è fondamentale che madri e padri mettano dei limiti e si assumano la responsabilità e la fatica della decisione. È altrettanto importante che gli adulti condividano e spieghino il senso di queste scelte ai più piccoli, ma è fondamentale che siano madri e padri a delineare chiaramente i confini. È importante che la genitorialità sia autorevole, ma non autoritaria, e, soprattutto, coerente. L’eccezione può certamente trovare spazio, ma in occasioni speciali, particolari.

Parliamo di abitudini a tavola. Per necessità o volontà si può mangiare tutti insieme con il seggiolone direttamente unito alla tavola oppure separatamente con il bambino che mangia prima di tutti i componenti.

Dipende sempre da qual è il senso dietro un’azione. Ritengo che non vi sia un modo di agire “giusto” o “sbagliato” a priori in quanto quello che cambia è la posizione soggettiva dalla quale facciamo una cosa. Vi sono, ad esempio, dei momenti in cui una famiglia deciderà che vuole usare il seggiolone per mangiare tutti insieme e altri momenti, in cui le stesse persone, decideranno che è utile che il bambino mangi prima e non con il resto della famiglia. Inoltre, ciascuno deve fare i conti, giorno per giorno, con quel che, umanamente, riesce a fare.

Bambino a tavola al ristorante, quali consigli?

Non aspettarsi che il bambino si comporti come un adulto, che capisca il contesto nel quale si trova e che si comporti secondo il galateo. I bambini sono bambini e questo fanno. È compito dell’adulto fare delle scelte che tengano conto del piccolo. Avere figli piccoli non significa privarsi per anni di una cena fuori con amici, al contrario, è fondamentale che i neo genitori non si esauriscano come soggetti nel loro essere mamma o papà, ma che continuino ad essere anche coppia coniugale, amici di …, professionisti nel loro campo, donne e uomini, etc. I bambini possono certamente essere portati al ristorante, ma con determinate accortezze. Forse è meglio scegliere un ristorante dove sia facile alzarsi e fare due passi, magari una pizzeria dove si possa andare con il papà a vedere il pizzaiolo realizza una pizza o un luogo dove non sia richiesto un galateo impeccabile.