Le microplastiche possono favorire le malattie infiammatorie intestinali. Uno studio pubblicato sulla rivista Environmental Science & Technology ha analizzato campioni di 50 persone sane e 52 persone con IBD (Inflammatory bowel disease come il morbo di Crohn e la colite ulcerosa) rivelando che quest’ultime avevano il 50% in più di microplastiche nelle feci. I partecipanti provenivano da tutta la Cina e hanno anche compilato un questionario che includeva informazioni sulle loro abitudini alimentari e di consumo dell’anno precedente.
Ricerche precedenti hanno dimostrato che le microplastiche possono causare infiammazioni intestinali e altri problemi intestinali negli animali da laboratorio, ma la ricerca è la prima a indagare sui potenziali effetti sull’uomo. Gli scienziati hanno trovato 42 pezzi di microplastica per grammo in campioni essiccati di persone con IBD e 28 pezzi in quelli di persone sane. La concentrazione di microplastiche è risultata più alta nei soggetti affetti da IBD più grave; una circostanza che suggerisce una connessione tra le due evidenze. Tuttavia, come spiega il quotidiano britannico The Guardian, lo studio non dimostra un nesso causale e gli scienziati hanno affermato che sono necessarie ulteriori ricerche. Lecita però l’ipotesi che l’IBD induca le persone a trattenere più microplastiche nel loro intestino.
Oltre al collegamento con l’IBD, gli scienziati hanno scoperto che le persone che tendevano a bere acqua in bottiglia o mangiare cibo da asporto avevano circa il doppio della concentrazione di microplastiche nelle feci. In totale, tra le microplastiche sono stati trovati 15 diversi tipi di plastica. I più comuni erano il PET, utilizzato su bottiglie d’acqua e contenitori per alimenti e la poliammide, che si trova anche negli imballaggi alimentari.
CHI CERCA TROVA
Da qualche anno chi la cerca, a prescindere da cosa analizza, la trova. Se ne trova nella carne dei pesci che consumiamo e che ne accumulano anche quantità che fanno impressione, nei frutti di mare, nel sale marino, nelle acque (di fiumi, di rubinetto, perfino nelle minerali). Non risparmia neppure prodotti come il miele.
Inevitabile, dunque, che fosse rilevabile anche nei soft drink che Il Salvagente ha mandato in analisi nel settembre 2018 nei laboratori del Gruppo Maurizi.
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Seven Up, Pepsi, San Benedetto, Schweppes, Beltè, Coca-Cola, Fanta, Sprite sono solo alcuni dei marchi finiti sotto la lente d’ingrandimento e che – con una certa sorpresa – hanno tutti fornito un responso univoco: la presenza di microplastiche non ha risparmiato alcun prodotto, tutte e 18 le bottiglie sono risultate contaminate, con valori che vanno da un minimo di 0,89 mpp/l (microparticelle per litro) ad un massimo di 18,89 mpp/l.
“Nel corso delle analisi che abbiamo effettuato per valutare la possibile presenza di microplastiche nei liquidi – ha spiegato nella conferenza stampa Daniela Maurizi, A.D. Gruppo Maurizi – abbiamo realizzato accurate prove di fondo e di bianco per verificare eventuali contaminazioni anche da parte dell’aria circostante. Tali prove garantiscono risultati affidabili secondo i protocolli vigenti per le attività di analisi di questo tipo. I dati rilevati nel nostro laboratorio confermano il legame tra inquinamento ambientale e catena alimentare”.
Segue dopo l’infografica
Se è confermato, dunque, che “chi cerca trova” stupisce che nessuno dei tè, delle cole, delle gassose, delle aranciate o delle acque toniche che abbiamo sottoposto ad analisi si sia salvato. Da dove viene e che pericolo c’è da aspettarsi da questa invisibile ma costante invasione di frammenti che finiscono nella nostra alimentazione? Le ricerche scientifiche sembrano dare una risposta per nulla tranquillizzante al secondo interrogativo. Quanto al primo, è evidente che l’inquinamento da plastiche è oramai all’origine della contaminazione di molti cibi.