Alberto Ritieni, UNESCO Chair of Health Education and Sustainable Development, University of Naples Federico II
Luisa Mannina, Professore Ordinario di Chimica degli Alimenti, Dipartimento di Chimica e Tecnologie del Farmaco, Facoltà di Farmacia e Medicina, Sapienza Università di Roma
La necessità di ridurre eventuali contagi durante la somministrazione del pranzo tra i più piccoli ha spinto all’introduzione di stoviglie e piatti compostabili che sono meno impattanti dal punto di vista della sostenibilità ambientale. Una sorveglianza condotta dall’Università di Notre Dame su 19 campioni di questi prodotti ha ritrovato fino a 1.670 ppm di fluoro, derivato probabilmente dai Pfas. I perfluroalchili e i polifluoroalchili sono una famiglia di oltre 4.700 sostanze chimicamente simili e riconosciute dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) in alcuni casi come illegali.
PFAS sono sostanze artificiali ubiquitarie ampiamente usate nei processi industriali in svariati ambiti grazie alle loro stabilità chimica e termica, all’impermeabilità all’acqua e ai grassi e alla capacità di rendere i materiali a cui sono applicati repellenti all’acqua, all’olio e resistenti alle alte temperature. Come conseguenza della loro estrema diffusione, queste sostanze sono state trovate nell’ambiente dove possono rimanere per centinaia di anni e all’interno del corpo umano dove possono persistere per lunghi periodi.
Possono trovarsi nei piatti e posate monouso usate nelle mense scolastiche così da pranzare senza interrompere la bolla di separazione tra le classi. La conformità al MOCA (Materiali e Oggetti a Contatto con gli Alimenti) di questi materiali assicura che non sono ceduti dai materiali compostabili ma sempre nuovi composti della stessa famiglia non sono ancora associati ad evidenze tecnologiche sperimentali.
I Pfas sono presenti come additivi in vari settori industriali proprio per sfruttare al meglio le loro proprietà di impermeabilizzazione, l’esposizione a queste sostanze chimiche attraverso i materiali di contatto con gli alimenti può accrescere il rischio di provocare effetti nocivi alla salute del consumatore.
Il compito della chimica degli alimenti è quello di monitorare la presenza e il rilascio di queste molecole negli alimenti e nei prodotti MOCA che possono aumentare il rischio attraverso la filiera alimentare e ricercare gli stessi composti o i loro metaboliti nei campioni biologici di chi è esposto ai PFAS.
L’EFSA ha stabilito una nuova soglia di sicurezza per le principali molecole perfluroalchiliche rivalutando anche l’effetto cocktail dovuto alla copresenza di più molecole a cui siamo esposti attraverso acqua e alimenti.
Ha stabilito una dose settimanale tollerabile di gruppo (DST) pari a 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo alla settimana dose che appare superata da molti cittadini europei.
Questo nuovo valore di allarme tiene soprattutto conto dell’effetto sulla salute umana a livello immunitario rendendo addirittura meno efficaci le risposte alle campagne vaccinali mentre nel 2018 l’EFSA si era limitata a considerare come rischio l’aumento di livelli di colesterolo indotto da parte dei livelli di PFAS presenti nell’ambiente.
La dieta è una grande fonte di esposizione ai PFAS: solo tra il 2002 e il 2016 l’FDA ha approvato 19 nuovi PFAS per l’uso in imballaggi per alimenti e quasi il 50% degli involucri per fast food raccolti nel 2014 e 2015 si rilevava contaminato in modo rilevabile.
Eliminare i PFAS degli imballaggi per alimenti non li farà scomparire del tutto. Possono per esempio bioaccumularsi nei fanghi di depurazione usati come fertilizzanti nei campi agricoli o in acque contaminate usate per l’irrigazione. Dai campi quindi possono sono assorbiti delle colture destinata all’alimentazione umana e degli animali.
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