La nuova felpa “sostenibile” di Zara “Respect” costa 39,67 euro e all’azienda tessile turca che l’ha prodotta arrivano 1,53 euro mentre chi ha raccolto e filato il cotone riceve 0,55 euro mentre il guadagno per il colosso del fast fashion ammonterebbe a 4,20 euro a felpa. La Ong Public Eye ha ricostruito i costi di filiera del capo di abbigliamento del colosso spagnolo del fast fashion che fa parte della nuova linea sostenibile “Join Life” con la quale Zara si impegna ad impiegare meno acqua e solo con fibre naturali.
Ma questa – condivisibilissima – riduzione dell’impatto ambientale chi lo paga? A giudicare da quanto ha ricostruito Public Eye e contribuito a diffondere in Italia la campagna Abiti puliti, sono, come sempre, gli operai tessili e i contadini impegnati nella raccolta del cotone a “pagare” il conto più salato, fatto di retribuzioni bassissime.
“La ricerca condotta sulla popolare felpa di Zara conferma ciò che affermiamo da tempo -ha commentato Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti – è sempre più urgente e necessario affrontare il tema della redistribuzione della ricchezza nelle catene produttive globali della moda a favore dei lavoratori, spesso donne, che ne sono le principali artefici. Per questo sono necessari accordi vincolanti che obblighino i marchi committenti a pagare prezzi adeguati a garantire il riconoscimento di salari dignitosi a tutti i lavoratori della filiera”.
Public Eye risalendo la catena di produzione di questa felpa, è arrivata agli stabilimenti di Smirne, in Turchia. La fabbrica incaricata della realizzazione dei 20mila maglioni, venduti in Svizzera al prezzo di 39,67 euro cadauno, ha ricevuto soltanto 1,53 euro al pezzo e la tipografia che ha apposto lo slogan solo nove centesimi a stampa. “Per garantire la produzione – denuncia Abiti puliti in una nota – è evidente che i proprietari siano stati costretti a sotto pagare i dipendenti o a farli lavorare più del consentito”.
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I lavoratori avrebbero guadagnato tra i 310 e i 390 euro al mese, circa un terzo del salario stimato dalla Clean Clothes Campaign come dignitoso. Inoltre, in uno degli stabilimenti la produzione sarebbe continuativa per 24 ore al giorno, divisa in due soli turni da 12 ore: “una pratica – si legge ancora nella nota – contraria al codice di condotta e alla legge turca, che impone turni massimi di lavoro notturno di sette ore e mezza. Peraltro, in una delle fabbriche buona parte dei lavoratori sarebbero assunti con contratti giornalieri, senza alcuna garanzia di impiego il giorno successivo”.
Secondo gli autori dell’inchiesta “basterebbe destinare 3,62 euro in più a felpa alla mano d’opera per garantire un salario dignitoso a tutti i lavoratori”. Del resto, come ricorda Abiti puliti, le risorse alla Inditex, proprietaria del marchio Zara, non mancano visto che ha registrato un utile netto record di 3,44 miliardi di euro nel 2018, e potrebbe facilmente, conclude Abiti puliti, “rispettare i diritti di coloro che contribuiscono al suo successo, cominciando a pagare dei prezzi di acquisto sufficienti a garantire loro un salario dignitoso”.
La risposta di Zara: “Calcoli privi di fondamento”
La risposta del gruppo Inditex non si è fatta attendere: “I calcoli ipotizzati da Public Eye sono privi di fondamento, quindi le b sono completamente inaccurate e fuorvianti e respingiamo fermamente tali affermazioni. Infatti il prezzo di approvvigionamento è ben al di sopra di quello utilizzato in modo speculativo nel rapporto, che non è veritiero. In ogni caso, sottolineiamo che tutte le fabbriche coinvolte nella produzione di questo capo sono state registrate e supervisionate prima che Public Eye ci contattasse, in linea con le nostre politiche di tracciabilità e compliance, senza alcuna violazione degli stipendi dei loro lavoratori”.