Che i portali di acquisti online, come Amazon o Alibaba Express, raccolgano i dati per creare un profilo del consumatore e proporgli acquisti prodotti mirati, non è una novità . Quello di cui invece cominciano a preoccuparsi le organizzazioni internazionali che si occupano di commercio, come l’Ocse, è che gli stessi utilizzino i nostri dati per trattare in maniera discriminatoria i consumatori in base al loro reddito. Per fare un esempio: immaginate se Amazon vi vendesse un computer a un prezzo più alto del vostro vicino di casa solo perché sa – o suppone – che il vostro stipendio sia più alto.
Le preoccupazioni dell’Ue
A ipotizzarlo è un articolo di Adriano Bonafede su Repubblica, che cita gli studi presentati dall’Unione europea a un convegno dell’Ocse, e basati sul timore di una evoluzione spinta in questa direzione. “è anche ipotizzabile che, attraverso una reciproca lettura che i big dell’e-commerce fanno continuamente del processo di fissazione dei prezzi, avvengano delle collusioni tacite fra gli operatori. In questo modo, tutti i siti si allineerebbero contemporaneamente ai prezzi pensati per un certo individuo, lasciando quest’ultimo senza scampo” scrive il quotidiano, citando anche i risultati di una ricerca della Deloitte, secondo cui il 40% dei portali che si sono forniti di tecnologia e algoritmi utili a questo scopo, li ha effettivamente utilizzati per personalizzare i prezzi.
Il parere di Guido Scorza
Il Salvagente ha girato i dubbi a Guido Scorza, avvocato ed esperto di diritto digitale, per capire quali sono i rischi e quali le contromosse possibili. “Il presupposto  tipo di prezzi è rappresentato dalla profilazione spinta dell’utente, che ovviamente deve essere figlia di un consenso – ragiona Scorza – L’esistenza di queste pratiche dovrebbe suggerire di soppesare con più attenzione il fatidico flag che gli si chiede quando gli propongono il consenso. Tu mi dovresti dire che stai raccogliendo i miei dati per identificarmi come alto o basso spendente per farti offerte commerciali personalizzate”. Il problema è che spesso l’informativa non è così chiara o quantomeno non è così dettagliata. Ma è legale? “Se discutiamo di trasparenza, posso anche limitare l’impatto del fenomeno, ma quando ci spostiamo a chiedere se è vietato vendere un’aspirapolvere online a due persone diverse a prezzi diversi, non posso dire che sia vietato. Solo nel caso di un monopolista, c’è l’obbligo di non attuare politiche discriminatorie sul prezzo”.
“Intervenga il garante della privacy”
Scorza dunque ragiona sulle possibili azioni da intraprendere per difendere il consumatore: “Se consideriamo un fenomeno percepito come non etico, ma non illecito, ci si può chiedere se non sia il caso di vietarlo. Secondo me è un’operazione non particolarmente facile. Il tema vero è quello della trasparenza degli algoritmi. Questo è un tema che si può e si deve governare”.  Rivolgendosi a un ipotetico portale di eshopping, Scorza spiega: “Mi devi tradurre in simboli l’algoritmo, in grado di dire che una delle funzionalità dello stesso è infilarmi in un “basket” di quelli ricchi che pagano di più le cose. Questa la riterrei una soglia già raggiungibile col diritto vigente, anche con la semplice azione normativa del garante della privacy nazionale”.
Simboli per la trasparenza
Un risultato andrebbe ottenuto non aggiungendo due righe nelle condizioni generali di contratto, che non legge più nessuno, ma con i simboli. “Vado oltre – conclude Scorza – trasparenza anche attraverso codici, in grado di essere interpretati da terminali come Alexa o il frigorifero intelligente, che mi possano dire: se vuoi acquistare questo oggetto fallo, ma siccome sei identificato da questo portale come alto spendente, se lo fai tramite il profilo di tua moglie, ti costa tot di meno”.
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