Il mondo, là fuori, è troppo duro per loro che sono ragazzi di solito molto sensibili e intelligenti, ma che avvertono come un peso insopportabile sulle loro giovani esistenze in formazione ciò che la società chiede e pretende. Essere bravi a scuola, alla moda, belli, performanti.
L’infanzia è il tempo in cui questi ragazzi hanno costruito il loro ideale di se’, e quando questo ideale non viene raggiunto o viene intaccato, allora si crolla e ci si isola.
Ritirati sociali
In Giappone questi ragazzi che si ritirano tra le mura della loro camera, perché la casa è talvolta troppo grande per la loro paura, si chiamano Hikikomori, che letteralmente significa “stare in disparte, ritirarsi”. In Italia qualcuno li chiama allo stesso modo, alla ricerca di un terreno comune su cui discutere scientificamente; altri li chiamano semplicemente ritirati sociali. Tutti concordano su un punto: non si tratta di una vera e propria malattia mentale, ma di certo di un disagio. Perché se è vero che di scelta si tratta, è una scelta subita, indotta, e non attiva. Almeno per la maggior parte dei ragazzi che la intraprendono. La malattia, talvolta, arriva dopo, se il ritiro prosegue troppo a lungo.
In Giappone si stima siano alcuni milioni, in Italia 100/120mila. Di solito sono maschi (ma non sono assenti le femmine), vivono più a Nord che a Sud, hanno un’età media di 20 anni.
Sono solo alcuni dei primi dati statistici raccolti da Marco Crepaldi presidente dell’associazione Hikikomori Italia che si occupa dello studio del fenomeno e della creazione dei una rete di conoscenza e supporto. “Un progetto di sensibilizzazione e informazione corretta sul fenomeno che i media – ma anche i medici – tendono a confondere con la depressione o con la dipendenza da Internet”.
Crepaldi ha raccolto testimonianze e dati nel libro appena pubblicato “Hikikomori, i giovani che non escono di casa” che rappresenta la prima indagine statistica in assoluto condotta sul fenomeno a livello nazionale. “I dati emersi sono estremamente preziosi per meglio definire la natura del problema”.
Suicidio sociale
Questi ragazzi, proprio nel momento in cui dovrebbero “nascere socialmente, si suicidano, invece, socialmente”, come rileva Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell’associazione Minotauro che da decenni a Milano lavora con gli adolescenti. “Il ritiro avviene di solito a seguito di un episodio precipitante, che determina il crollo dell’ideale che questi ragazzi si erano posti; a quel punto scatta prima il ritiro dalla scuola e poi dalla società”, spiega ancora Lancini, che segue con il suo centro centinaia di ragazzi che provano questo disagio. “Eri un bambino con tante aspettative, il tuo corpo non ti piace, lo sguardo di ritorno che avverti ti provoca dolore e così crolli – prosegue lo psicologo – Scatta una vera e propria fobia scolare talvolta anche avvertita a livello fisico con mal di pancia e fatica ad alzarsi dal letto”.
Internet, la rete, i videogiochi, i social, non sono la causa del ritiro, “ma senza di essi probabilmente questo fenomeno non sarebbe esistito, perché un ritiro così lungo sarebbe senz’altro sfociato in una malattia”, chiarisce Lancini: “Internet e l’uso del pc costituiscono semmai un rifugio e uno strumento attraverso cui costruire relazioni virtuali perché quelle reali sono troppo difficili”. E al tempo stesso permettono in qualche modo di restare “nel mondo”.
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Cosa scatena il ritiro
Posto che ogni storia è a se stante, nella maggior parte dei casi sono eventi traumatici a scatenare il ritiro sociale. E viene da chiedersi dove sono finiti quei giovani che, fino a qualche decennio fa, si ribellavano all’autorità, manifestavano, trasgredivano. “Oggi i disagi adolescenziali sono molto cambiati, le problematiche non sono più legate all’opposizione e alla trasgressione, che un tempo, erano magari legati alla sfera dell’emancipazione sessuale – spiega Lancini – Oggi i disagi adolescenziali sono legati ad aspetti ideali e a ciò che ad essi si pone davanti. La società di oggi è una società più affettiva che lascia esprimere il bambino e anticipa al contempo la sessualità psichica. Ma quando arrivano i cambiamenti del corpo, rischiano di crollare le aspettative”. Non è più, insomma, il senso di colpa del passato, spesso scatenato da una società sessofobica, a provocare sofferenza “ma il senso di inadeguatezza”. Ecco perché l’hikikomori, da molti, viene definito un fenomeno sociale. Difficile dire se si tratti anche di un qualcosa di paragonabile al desiderio di isolamento dell’asceta, come suggerisce Emilio Rebecchi, psichiatra e psicoterapeuta bolognese: “È una sollecitazione interessante – sostiene Lancini – perché alcune figure storiche ritornano”.
Il fatto certo è che il “mondo si è paranoicizzato”: “I giochi virtuali hanno sostituito le battaglie di strada; siamo genitori che vogliono per i propri figli continue relazioni sociali, che se li vediamo a quattro anni arrampicarsi sul divano il giorno seguente li iscriviamo ai corsi di arrampicata, che vogliamo sempre impegnati, guardiamo ammirati come usano i dispositivi tecnologici: in sostanza abbiamo precocizzato l’infanzia e però infantilizziamo l’adolescenza. A quegli stessi bambini cresciuti, un bel giorno, diciamo che non possono uscire da casa da soli, che non devono usare il telefono devono stare chiusi in camera a studiare”. E questi ragazzi non si sentono adeguati: sono certi di deludere i genitori; nel ritiro la rete diventa un antidolorifico utile a non perdere il contatto con la realtà.