L’aveva annunciato e ha dato seguito alle sue minacce. Trump ha dato ufficialmente il via ai dazi sulle importazioni di acciaio ed alluminio da Europa, Messico e Canada. Le tariffe ammontano al 25% sull’acciaio e al 10% sull’alluminio.
A rimetterci, ovviamente anche l’Italia, che è il quinto esportatore europeo di acciaio nel paese nordamericano.
Immediate le reazioni del vecchio continente che con il presidente della Commissione Jean Claude Juncker ha definito come “protezionismo puro e semplice” le mosse di Trump e ha preannunciato “contromisure” come addizionali su jeans a stelle e strisce (Levi’s), bourbon e motociclette Usa (Harley Davidson).
Una guerra commerciale che rischia di allargarsi e che era stata ampiamente preannunciata da un documento (più d’uno lo aveva definito un vero ricatto) contenuto in un documento di 47 pagine, in un documento di 47 pagine, il National Trade Estimate Report on Foreign Trade Barriers 2018. In quel report le condizioni previste dall’amministrazione Trump condizionavano l’esenzione del voto a condizioni inaccettabili, come il via libera agli Ogm, la richiesta all’Europa di allentare i vincoli all’utilizzo di pesticidi e interferenti endocrini, perfino la fine del marchio Ce, che per quanto poco tutelante per i consumatori comunitari è visto da Washington come un freno al libero commercio.
Ce n’era anche per l’Italia nel ricatto statunitense. Per evitare i dazi sull’acciaio, minacciavano i nordamericani, non c’è spazio per Igp, Dop e Sgt. Tantomeno per le etichette di provenienza degli alimenti. L’Italia ne fa uso per distorcere la concorrenza, accusa l’amministrazione Trump e dunque, che si tratti di etichette di origine del latte, carne, pasta o pomodoro debbono sparire.
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