I giganti europei della moda H&M e C&A nonché la società tecnologica 3M sono finiti nel mirino di un’inchiesta del Financial Times perché si servirebbero della manodopera dei detenuti delle carceri cinesi per confezionare i loro prodotti. Le tre aziende hanno fatto sapere di “prendere seriamente in considerazione le rilevazioni del quotidiano”.
Peter Humphrey è un ex reporter dell’agenzia “Reuters” ed ex investigatore privato che nel 2013 è stato arrestato con l’accusa di aver pagato tangenti a cliniche cinesi: ha scontato 23 mesi nelle prigioni di Qingpu, a Shanghai, in Cina. Quasi due anni di galera in cui ha guardato e annotato con cura tutto quello che gli passava sotto gli occhi, per poi tornare a casa e svelare ogni cosa ad un giornalista del “Financial Times”.
Secondo quanto raccontato da Humphrey, in quella prigione della periferia di Shanghai si porta avanti un vero e proprio business: i detenuti confezionano abiti per i giganti dell’abbigliamento come H&M e C&A. “Le mattine, i pomeriggi e spesso anche dopo pranzo, i prigionieri lavorano nelle sale comuni. I nostri uomini hanno confezionato parti per l’imballaggio dei vestiti. Ho riconosciuto i loghi di marchi noti come H&M”, racconta Humphrey secondo cui le aziende coinvolte “potrebbero anche non essere al corrente che nelle carceri cinesi nascano buona parte dei loro prodotti”.
H&M, nel suo statuto, non permette il lavoro carcerario, ma ha fatto sapere che “è inutile dire che prenderemo molto sul serio le informazioni pubblicate dal Financial Times”. Una posizione simile l’ha espressa anche C&A che non ammette il lavoro carcerario “in nessuna forma” e che, sempre tramite un portavoce, spiega che nella revisione annua delle 273 aziende che lavorano per il gruppo in Cina sono sono stati riscontrati casi sospetti. Anche 3M nega di avere utilizzato il lavoro dei carcerati, e sempre tramite un portavoce promette di indagare a fondo sulle parole dell’ex investigatore privato.
Va anche detto, per completare il quadro, che l’occupazione dei carcerati non viola le regole dell’International Labour Organization, organizzazione delle Nazioni Unite specializzata nel verificare gli standard del lavoro, a patto però che la pratica non si trasformi in una redditizia forma di lavori forzati. A smentire almeno in parte questo ci sono le parole di Humphrey, che parla comunque di un pagamento mensile, per quanto irrisorio, pari 120 yuan (poco più di 15 euro) per il lavoro, con in più la possibilità di accedere anche ad uno sconto della pena.
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