Può un piatto di pasta contenere una micidiale tossina? Il problema delle aflatossine – le micotossine cancerogene che possono contaminare alcuni alimenti che arrivano sulle nostre tavole come arachidi, frutta secca e a guscio, granoturco, riso, spezie, latte, formaggi, yogurt, insaccati, uova – si fa ogni anno più serio. Un vero e proprio allarme sanitario collegato ai cambiamenti climatici: il fungo (Aspergillus) che produce le aflatossine si sviluppa infatti in contesti caratterizzati da elevate temperature e poche piogge, condizioni che caratterizzano sempre più il nostro Paese e, in particolare, la zona della pianura padana. Qui ad essere colpite sono soprattutto le colture di mais e il problema ha iniziato a essere preoccupante dagli anni 2000, con l’annus horribilis 2012 che ha registrato il picco di infestazioni e conseguente distruzione di gran parte del raccolto. Un danno economico notevole, certo, ma soprattutto una minaccia per la nostra salute.
REGOLE RIGIDE E CONTROLLI SEVERI NON BASTANO
E allora bisogna correre ai ripari. La tutela parte dalle rigide regole europee che stabiliscono le soglie di tollerabilità della presenza di queste micotossine: i livelli massimi di aflatossine sono stabiliti dal regolamento CE n. 1881/2006. I prodotti che superano i livelli massimi consentiti non devono essere immessi sul mercato dell’UE. La direttiva 2002/32/CE stabilisce, invece, i livelli massimi di aflatossine B1 nelle materie prime per mangimi.
A farci stare tranquilli dovrebbero essere anche i severi controlli effettuati sulle colture dagli enti competenti. Ma qui è possibile che si verifichi qualche falla del sistema: intanto si tratta di controlli “a campione”, per cui la certezza al 100% non si può avere. Inoltre, la contaminazione si può verificare anche successivamente alla raccolta, favorita ad esempio da un cattivo deposito o stoccaggio.
I RIMEDI MADE IN ITALY CHE DISTRUGGONO LE AFLATOSSINE
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Che fare allora? Oggi esistono almeno due soluzioni che assicurano una prevenzione efficace del problema. La prima è stata sviluppata dallo staff della professoressa Paola Battilani, docente di Difesa delle derrate agroalimentari dell’Università Cattolica del S. cuore di Piacenza. “Si tratta – spiega la dottoressa – di un rimedio completamente naturale. Dal 2003 abbiamo cominciato a selezionare un ceppo del fungo Aspergillus che non produce la tossina ed è molto competitivo: si sostituisce infatti al fungo tossico, con un procedimento naturale, dando luogo a colture ‘pulite’. È un prodotto biologico che si distribuisce direttamente in campo e in grandi quantità quando il mais non ha ancora la spiga. Le prime applicazioni sperimentali le abbiamo fatte con l’Università nel 2012. I risultati sono stati positivi e nel 2013 abbiamo potuto brevettare e vendere a un’azienda il prodotto. Ora è in corso l’iter, molto lungo, per arrivare all’autorizzazione definitiva all’impiego. Ma nel frattempo è stata concessa un’autorizzazione temporanea che nel 2016 ha permesso di trattare in tutto il nord Italia 15mila ettari di terreno coltivato a mais. Il risultato è stato molto buono, con un 80-90% di diminuzione del fenomeno della contaminazione da aflatossine”.
Quello dell’Università di Piacenza non è l’unico sistema made in Italy che aiuta a combattere le aflatossine. Un altro metodo è stato messo a punto da Massimo Valverde, professore dell’Università Statale di Milano e referente scientifico della Biomediteck, azienda impegnata nella ricerca di soluzioni al problema delle micotossine e del recupero delle derrate alimentari di origine agro-zootecnica inutilizzabili perché compromesse da livelli di micotossine inaccettabili.
Il docente e i suoi collaboratori hanno ottenuto un brevetto europeo, rilasciato dall’ufficio di Monaco, per la loro “invenzione” che permette la sanificazione delle farine di qualsiasi cereale: “un sistema in realtà semplicissimo – ci racconta Valverde – che elimina le micotossine esponendo le farine per brevi periodi a diverse concentrazioni di ozono. L’effetto è di rompere le molecole, così le farine sono del tutto depurate dagli agenti dannosi e cancerogeni come le aflatossine”.
Purtroppo quello delle micotossine è ormai un problema serissimo in Italia: “il 35% della produzione italiana di grano duro – conferma Valverde – contiene livelli troppo alti di micotossine per poter essere utilizzata nella produzione della pasta. E buona parte del grano duro importato dall’estero sta nelle stesse condizioni, se non peggio. È il caso, ad esempio del grano canadese, un prodotto tossico che grazie all’accordo con il Canada (Ceta) può arrivare facilmente sulle nostre tavole con conseguenze sulla salute davvero preoccupanti”.
Ricordiamo infatti che lo Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, ha classificato come cancerogena l’aflatossina B1. Questa è purtroppo la più diffusa nei prodotti alimentari ed è, oltre che responsabile dell’insorgenza del cancro, una sostanza genotossica, ovvero capace di danneggiare il Dna. L’aflatossina M1, invece, è uno dei principali metaboliti dell’aflatossina B1 nell’uomo e negli animali: è stata classificata dallo Iarc come possibile cancerogena e può essere presente nel latte proveniente da animali nutriti con mangimi contaminati da aflatossina B1.