Il cibo, in tv, fa più ascolti della politica. Sembra banale, ma da quando lo scorso anno Massimo Giannini ha inaugurato a Ballarò lo spazio alimentare, un po’ tutti sono andati a ruota. Il piatto forte dei talk show è diventato lo stesso da Di Martedì, a La Gabbia. Una rapida incursione negli allarmi alimentari e i dati Auditel tornano a sorridere.
E così in prima serata – e in seconda, dato che da qualche mese è tornato in Rai anche Mi Manda Rai3 – è tutto un fiorire di laboratori fatti in casa, analisi ed esperti, nutrizionisti e personaggi improbabili che ci spiegano cosa mangiare e soprattutto cosa evitare come la peste, visto che ancor più di cosa mettere nei piatti fa audience cosa non mettere nei piatti.
Bene, diranno i lettori di questo giornale, “era ora che anche sul piccolo schermo si tornasse a parlare di cose che interessano la gente”.
Non per fare i rompiscatole per partito preso, ma in questo fiorire di temi alimentari c’è qualcosa che non ci convince. Tanta aggressività nasconde una debolezza di fondo: l’impossibilità di fare nomi.
Niente nomi, siamo in Tv
E già, perché che si tratti di tv pubblica o di canali commerciali, le condizioni per occuparsi di questi temi sono sempre le stesse: non citare nessun marchio. Perché al di là di autori, responsabili di programma, conduttori c’è un convitato di pietra sempre vigile e presente: la pubblicità, molto più condizionante dello share, molto più influente dei telespettatori.
Forti coi deboli e deboli con i forti, questo è il succo delle tante trasmissioni a cui assistiamo tutte le settimane, quando si avventurano nel campo alimentare. Quando qualcuno sgarra (come ha fatto Report fino ad oggi, vedremo cosa succederà la prossima stagione dopo l’addio annunciato di Milena Gabanelli) è scandalo. E magari sono cause milionarie.
Oppure si scomoda con richieste di censura addirittura il premier Renzi (come è successo 8 mesi fa allo speciale del Tg1 “Veleni nel piatto?” che si occupava del grano utilizzato nella pasta industriale italiana).
L’importante è non disturbare
Decisamente più facile e meno pericoloso occuparsi di batteri nelle saune, nelle cravatte, negli spritz. O affrontare in una manciata di secondi il problema delle micotossine, dell’acrilamide, dei pesticidi… naturalmente senza imputarlo ad alcun prodotto identificabile.
Se poi si confeziona una raffica di servizi da un minuto o giù di lì (è lo stile della trasmissione di Floris), il gioco è fatto: approfondimento zero, nessun ostacolo dalle concessionarie pubblicitarie e agli spettatori rimane solo la sensazione ansiogena che non possono essere sicuri di nulla. Ma che non possono prendersela con nessuno. Insomma, che non abbiano nessuna scelta se non quella di non mangiare.
Anche quando si affrontano temi importanti (e i nostri lettori avranno notato che spesso le inchieste di copertina di questo giornale diventano protagoniste di molte trasmissioni), i servizi vengono svuotati di qualunque accenno ai marchi, “puliti” da ogni asperità pericolosa. Un taglia e cuci che ci ha spinto a non partecipare a quei servizi televisivi destinati a ridurre in pillole incomprensibili il nostro lavoro.
È possibile fare un altro giornalismo tv, quando si parla di alimentare? L’esempio di Report, degli approfondimenti di Presa Diretta di Riccardo Iacona farebbe ben sperare. Ma sono le classiche eccezioni che confermano la regola di un giornalismo preoccupato di non turbare gli investitori pubblicitari.