La campagna #FilieraSporca sfida le aziende della Grande distribuzione organizzata ad adottare subito un’etichetta narrante che possa informare il consumatore sulla regolarità lavorativa, il rispetto dei diritti dei lavoratori, il contrasto al caporalato e la tracciabilità dei fornitori del prodotto agroalimentare. A cominciare magari da quelle arance della vergogna che, secondo il secondo rapporto #FilieraSporca “La raccolta dei rifugiati. Trasparenza di filiera e responsabilità sociale delle aziende” promosso da Terra! Onlus, Associazione daSud e Terrelibere.org, quest’anno nella piana di Catania sono state raccolte anche dai richiedenti asilo del Cara di Mineo che non potrebbero lavorare perche primi del permesso provvisorio.
Arance: il prezzo della vergogna
Lo sfruttamento nel settore agrumicolo colpisce anche gli italiani costretti a lavorare sotto il ricatto dei caporali e sui quali viene scaricata la crisi del settore (gli agrumi rappresentano il 4% del Pil) e sui consumatori finali che pagano un prezzo che cresce esponenzialemnte lungo la filiera.
Ecco i costi ricostruiti dal rapporto #FilieraSporca. Un chilo di arance per il mercato del fresco vengono pagate al produttore tra i 13 e i 15 centesimi, di cui solo 8/9 vanno ai lavoratori, fino a scendere a 3/4 per i braccianti in nero, che arrivano a 2 per gli stagionali di Rosarno. Il prodotto al supermercato viene venduto a 1,10-1,40 euro, di cui il 35-50% è costituito dal ricarico della Grande distribuzione organizzata (Gdo). Numeri ancora peggiori per le arance da succo. Un litro di succo d’arancia al supermercato costa 1,80-2 euro, ma è un prezzo imposto dal mercato, perché anche con i miseri margini della produzione, il prezzo minimo reale dovrebbe essere almeno 2,70 euro al litro. Il sottocosto lo pagano i lavoratori sfruttati e i consumatori che bevono succo tagliato con concentrato proveniente dall’estero, più economico e spacciato come italiano. L’industria di trasformazione delle arance fattura 400 milioni l’anno ma si comprano agrumi italiani per soli 50 milioni.
Il sottocosto? Sulla pelle dei lavoratori
Il sottocosto lo pagano i lavoratori sfruttati e i consumatori che bevono succo tagliato con concentrato proveniente dall’estero, più economico e spacciato come italiano. L’industria di trasformazione delle arance fattura 400 milioni l’anno ma si comprano agrumi italiani per soli 50 milioni.
In questo diventa fondamentale il ruolo della Grande distribuzione organizzata per raggiungere una filiera etica. Per questo, #FilieraSporca ha inviato un questionario sulla trasparenza di filiera a 10 gruppi presenti in Italia: Coop, Conad, Carrefour, Auchan – Sma, Crai, Esselunga, Pam Panorama, Sisa Spa, Despar, Gruppo Vegè e Lidl. Le risposte sono pervenute solo da quattro di loro: Coop, Pam Panorama, Auchan – Sma e Esselunga.
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La Coop inoltre risulta il distributore di arance e derivati a marchio più trasparente, seguito da Coca Cola, Auchan e Pam.
La richiesta a Martina: “Subito l’etichetta narrante”
Per la prima volta, il rapporto interpella anche i maggiori commercianti di arance, imprese da fatturati enormi, poco conosciute ma centrali nella determinazione dei prezzi, così come le Op, le Organizzazioni di produttori, che soprattutto al Sud sono diventate un escamotage di poche grosse aziende per accaparrarsi terre e accedere ai fondi pubblici. Per disinnescare il combinato esplosivo di sfruttamento del lavoro e marginalità di centinaia di migliaia di braccianti, la campagna #FilieraSporca chiede una legge sulla trasparenza che preveda: l’introduzione di una etichetta narrante sui prodotti agroalimentari o su quelli (agrumicoli in primis) dove insiste il fenomeno del caporalato; l’introduzione dell’elenco pubblico dei fornitori che permetta la tracciabilità dei fornitori lungo la filiera. Un elenco, consultabile sui siti web delle aziende, dove sono indicati tutti i fornitori delle singole aziende. #FilieraSporca sfida la Gdo e i grandi marchi ad adottare da subito un’etichetta trasparente.
“Chiediamo un incontro urgente al ministro del Mipaaf Maurizio Martina, è arrivato il momento che la politica agisca sulla prevenzione del fenomeno, rendendo trasparente la filiera – dichiara Fabio Ciconte, direttore di Terra!Onlus e portavoce della campagna #FilieraSporca – qualsiasi provvedimento repressivo, per quanto necessario, sarà insufficiente a contrastare un fenomeno che riguarda tutti, grande distribuzione, imprenditori agricoli, commercianti e braccianti, straenieri e non, che pagano il prezzo più alto di una filiera che non funziona”. “Tra i legami con Mafia Capitale e lo sfruttamento del lavoro, il Cara Mineo è il simbolo del fallimento delle politiche sull’accoglienza – ha aggiunto la deputata di Sel-Si Celeste Costantino, componente della commissione parlamentare Antimafia – serve un impegno maggiore del governo per superare i ghetti, ridare dignità al lavoro e togliere spazio alle mafie che creano e insieme cavalcano la crisi del settore”. Il rapporto è liberamente consultabile o scaricabile andando sul sito www.filierasporca.org .