Probabilmente cancerogeno o probabilmente non cancerogeno. Stiamo parlando del glifosato, l’erbicida più utilizzato al mondo, e delle due diverse conclusioni sulla sua pericolosità a cui sono giunti – nel giro di pochi mesi – rispettivamente l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro e l’Efsa. La rivista Internazionale di questa settimana dedica la copertina al diserbante su cui Monsanto ha basato la parte più consistente del suo business.
I dubbi sullo studio del Bfr
Dopo aver ripercorso la storia del glifosato e dello scontro tra scienziati che ne è inevitabilmente scaturito, Anke Sparmann – il giornalista tedesco di Die Ziet autore dell’articolo – ha puntato il dito verso lo studio dell’Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio (Bfr) utilizzato dall’Efsa per formulare il suo giudizio di “quasi” assoluzione. Questo studio – si legge sulla rivista – è stato scritto dalla Gliphosate task force, ovvero un gruppo in cui collaborano i produttori di fitofarmaci o meglio le aziende che hanno chiesto di poter vendere il glifosato nei paesi dell’Unione europea. Il rapporto tedesco di 947 pagine consiste sostanzialmente in una serie di riassunti do studi commissionati da quelle aziende per indagare gli effetti del glifosato sulla salute.
Esperimenti sottovalutati
Il rapporto della task force sul glifosato era già stato compilato quando la Iarc ha emesso il suo verdetto ma dopo che l’Agenzia ha concluso che l’erbicida è “probabilmente cancerogeno”, il Bfr ha pubblicato un’appendice per integrare il documento. Nel testo aggiunto l’istituto tedesco esaminava più nel dettaglio anche studi che non erano stati finanziati dall’industria e che avevano superato il processo di verifica. Tuttavia dava a questi studi una valenza diversa. In particolare, per smontare gli studi che avevano dimostrato l’insorgenza di neoplasie in ratti cibati con il glifosato, i tedeschi avevano osservato alcuni esperimenti dalle conclusioni analoghi ma condotti su topi che avevano assunto mangimi senza glifosato. Questo gli aveva permesso di concludere che le neoplasie non erano correlate all’erbicida. Peccato che – come scrive sempre Internazionale – questi esperimenti non erano stati effettuati in un periodo di tempo paragonabile, non hanno usato lo stesso tipo di topi né lo stesso tipo di laboratorio.
Le falle rilevate da Isde
A “demolire” la tesi dell’Efsa – e, indirettamente del Bfr – ci aveva già pensato l’associazione Isde che, in una lettera indirizzata al Governo, aveva messo in luce le contraddizioni della valutazione. In buona sostanza – sosteneva il presidente Roberto Romizi – per giungere alla conclusione di non cancerogenicità del glifosate, Efsa rifiuta a priori di considerare gli studi caso-controllo sull’uomo, attentamente esaminati da Iarc e considerati dalla stessa Agenzia di Lione conformi agli standard di qualità e solidità metodologica. Anche gli studi tossicologici su animali vengono interpretati da Efsa con il medesimo approccio pregiudiziale.
L’Ispra continua ad ignorare il glifosato
Al centro di questa querelle tra gli scienziati, ci sono i consumatori fino ad oggi scarsamente tutelati dall’esposizione al glifosato. Manca, infatti, la quantificazione del livello di esposizione cronica a questa sostanza nella popolazione generale e metterlo in relazione con le numerose patologie conosciute, in particolare quelle degenerative. Nonostante, infatti, il glifosato sia un probabile cancerogeno per l’uomo (oltre che un cancerogeno accertato per gli animali) e la sua presenza nelle acque sia ampiamente confermata anche da dati internazionali, in Italia il suo monitoraggio è effettuato solo in Lombardia, dove la sostanza è presente nel 31,8% dei punti di monitoraggio delle acque superficiali e il suo metabolita, Ampa, nel 56,6%.
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L’edizione 2014 (relativa agli anni 2011 e 2012) del rapporto sui pesticidi nelle acque a cura di Ispra, annovera il glifosato al terzo posto tra le sostanze più frequentemente rilevate nel monitoraggio delle acque superficiali e in molti casi la quantità supera gli standard di qualità ambientale: questo significa che laddove è cercato – lo ripetiamo, solo in Lombardia – è il pesticida più presente. Se guardiamo all’estero, inoltre, non mancano le ricerche che ne evidenziano la presenza in alimenti (come il pane) e in oggetti dall’uso più vario (garze e tamponi).