Nel mondo ci sono circa 7 milioni di depositi di semi conservati in oltre 1.700 repository, “archivi” informatici che li classificano e li organizzano. Le sempre maggiori e più accessibili conoscenze nel campo della genetica hanno accelerato esponenzialmente la capacità di sequenziare, cioè “mappare” il genoma delle sementi. Un progresso scientifico che se ben indirizzato può portare a notevoli passi avanti sul fronte della sicurezza alimentare. Il timore delle realtà che rappresentano i piccoli agricoltori globali, via Campesina in testa, è però che a trarne giovamento siano soltanto le multinazionali. Sul numero in edicola, il settimanale Left racconta come presto giganti della chimica e del settore sementiero, come Monsanto e DuPont, potranno passare sopra il principio – sancito dal Trattato internazionale in materia di risorse fitogenetiche del 1985 – secondo il quale i contadini devono essere liberi di scambiarsi i semi.
BIG DATA GLOBALE
Oggetto delle critiche è Divseek, un programma internazionale che estrapola le sequenze genetiche dalle sementi e le pubblica in archivi elettronici accessibili a tutti, anche a imprese che approfittando della disponibilità di questi dati possono sottoporre a brevetto determinate sequenze genetiche collegate a caratteristiche particolari delle piante. In pratica, grazie a questo “big data globale”, una multinazionale potrebbe imporre sul mercato, che è già sostanzialmente nelle mani di pochi “big”, semi sui quali ha il “copyright”, perché ad esempio contengono una particolare sequenza genetica che consente di utilizzare meno acqua durante la coltivazione, di generare piante che resistono a temperature estreme o all’attacco dei parassiti.
Il consorzio internazionale che sta dietro a Divseek comprende 69 partner del settore pubblico, centri di ricerca e anche operatori privati. Secondo le organizzazioni contadine, Divseek ha ottenuto il supporto del consiglio di gestione del Trattato sulle sementi facendo lobbyng sui Paesi dell’agricoltura industriale, come Canada e Australia, che impongono la loro linea in sede di applicazione del trattato, spesso prevaricando i Paesi più poveri.
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PROGRESSO PER POCHI
«Il problema non è il risultato della selezione genetica, né la ricerca in sé. Quello che contestiamo è che questo “progresso” non sia a disposizione di tutti ma riservato soltanto a chi ha la possibilità di pagare» hanno spiegato a Left i rappresentanti delle associazioni contadine presenti alla Fao il 9 ottobre, durante l’incontro del Consiglio di gestione del Trattato sulle sementi. La conseguenza è che l’oligopolio nel settore sementiero si trasformerà in monopolio e che un piccolo agricoltore locale, per coltivare quel seme brevettato imposto dalle multinazionali, dovrà pagare un canone, «la sua attività sarà costantemente controllata per evitare abusi e se dovesse piantare senza permesso i semi brevettati sarebbe accusato di furto, come già avviene per gli Ogm» aggiunge il presidente dell’associazione Crocevia Antonio Onorati. Così chi coltiva finisce per diventare di fatto “dipendente” di chi gli cede l’uso dei semi. E i padroni dei semi con il brevetto diventano anche padroni della terra, si chi la lavora e di ciò che arriva sulle nostre tavole.
Il servizio di copertina di Left contiene anche la risposta possibile, con una lunga intervista a Pierre Rabhi, padre dell’agroecologia, un intervento di Gunter Pauli sulla “ricetta” della Blue Economy per la democrazia del cibo e un “racconto” di Daniele De Michele, alias Donpasta, sull’importanza del cibo locale.
Fonte: Left