Caro Salvagente, ho letto l’articolo sulla data di scadenza di Lidl sui sandwich e sul fatto che contenga solo mese e anno. Convengo che, per abitudine ed “estetica” l’aggiunta delle cifre che indicano l’anno male non farebbero.
Ma dal punto di vista “tecnico” e, soprattutto, della tutela del consumatore, non aggiungerebbero niente.
Mi spiego: se il prodotto scade il 31 marzo (2018), vogliatemi credere, si può escludere che l’operatore lo ritiri dallo scaffale il 31 marzo (2018) e lo sistemi in magazzino per nove mesi, ri-esponendolo a scaffale a dicembre (2018), fregandosi le mani per la soddisfazione di poter far intendere che la scadenza è 31 marzo… 2019.
Al di là dei rischi santari, il prodotto apparirebbe con tutta evidenza assolutamente inidoneo al consumo, con un’imponente fioritura di muffe multicolori al cui confronto un quadro di Pollock sembrerebbe monotono.
Se il 15 marzo il consumatore vede nel banco frigo una confezione di latte fresco che indica come data di scadenza solo “20 marzo”, che si tratti di 20 marzo 2018 è palese (o qualcuno pensa che un operatore, un paio di giorni prima della scadenza, possa ritirarlo dal banco di vendita per riporlo in una cella frigorifera da cui estrarlo l’anno successivo?).
La norma non intende mettere a disposizione di operatori disonesti trucchi per prorogare all’infinito la vita commerciale dei prodotti, più banalmente (e a mio avviso, con buon senso) intende non complicare inutilmente la vita ai normali operatori per bene.
Se le macchine che confezionano brick di latte prevedono punzonatori a quattro caratteri (perfetti per giorno/mese), a che serve imporre agli operatori costi rilevanti per cambiarle e poter dettagliare giorno/mese/anno, quando l’elemento d’informazione in più è del tutto superfluo?
Roberto Pinton
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