È amato per la sua particolare fragranza e il sapore delicato, due doti racchiuse non solo nei suoi chicchi ma anche nel suo nome: basmati nell’antica lingua hindi significa proprio “Regina di fragranza” e anche “Ricco di aroma innato”. Sempre di più questo riso trova spazio sulle nostre tavole e non solo per cucinare piatti esotici tipici dell’India e del Pakistan, le due “regioni” asiatiche dove viene coltivato ed esportato in tutto il mondo. La conferma del fatto che il basmati ha conquistato il palato degli italiani la si trova guardando gli scaffali dei supermercati dove è sempre più numerosa la presenza di confezioni con gli inconfondibili chicchi lunghi, stretti e profumati tipici di questa varietà.
18 campioni alla prova qualità
Per capire allora la qualità di ciò che portiamo in tavola abbiamo voluto mettere la prova 18 marchi di riso basmati. I risultati, pubblicati nel nuovo numero in edicola, riflettono una grande varietà di giudizio: se dal punto di vista dei contaminanti, pesticidi e micotossine in particolare, non si evidenziano grandi problematiche, è dall’analisi dei difetti merceologici che emergono le differenze tra un buon numero di prodotti in grado di garantire una qualità anche eccellente e qualche campione i cui grani mostrano il fianco a qualche imperfezione di troppo.
L’Italia ha una grande tradizione nel settore risicolo: è il principale produttore ed esportatore di riso in Europa e, forte delle oltre 900mila tonnellate di riso lavorato, ne vende all’estero circa 500mila tonnellate. Il restante – 400mila tonnellate circa – è per il consumo interno a cui dobbiamo aggiungerne almeno altre 100mila tonnellate, la quantità dei risi “esotici” importati nel nostro paese. Tra questi una buona fetta è rappresentata dal basmati indiano e pakistano, eccellente per qualità ma non sempre al di sopra di ogni sospetto per quanto riguarda la sicurezza alimentare.
Chicchi “rotti”
In realtà è fin troppo semplice parlare genericamente di basmati visto che di questa tipologia di riso, molto apprezzato in cucina per la resa e perché non scuoce, ne esistono 86 varietà, ma solamente 18 hanno le caratteristiche inconfondibili del chicco originale.
Per fugare ogni dubbio ci siamo affidati a ben tre laboratori per le verifiche: l’analisi delle micotossine, la multiresiduale sui pesticidi e infine i test chimico-merceologici, svolti quest’utlimi presso il laboratorio dell’Ente nazionale risi, il centro di riferimento in Italia per questo tipo di analisi. Quest’ultima tornata di prove è stata quella più significativa per valutare i 18 campioni perché i diversi prodotti hanno dato risultati estremamente differenti tra di loro. Prendiamo ad esempio le rotture, cioè la presenza di grani rotti in una scatola che in base alla normativa italiana non possono superare il 5% dei chicchi inscatolati. Ebbene abbiamo campioni che superano questo tetto, c’è anche chi arriva a sfiorare il doppio del consentito con il 9,98% e chi invece riesce a garantire quasi l’integrità totale dei chicchi (0,72%).
I “grani” danneggiati e quelli disformi
Se poi passiamo a considerare i “Grani danneggiati dal calore”, i chicchi cioè che hanno subito un’alterazione a causa di riscaldamento che può favorire l’insorgenza di micotossine, abbiamo due i campioni che superano il livello di tolleranza ovvero lo 0,50%. Tra le impurità varietali, ovvero la presenza di altre varietà rispetto a quella dichiarata, ci sono alcuni nomi “blasonati” che, pur nei limiti di tolleranza del 5%, superano anche il 3% in una prova dove quasi tutti i campioni si attestano intorno allo zero. Un campionepoi presenta il 2,65% di disformità naturali, un dato al di sotto del limite tollerato (10%) ma molto più alto rispetto ai concorrenti (pressoché fermi sullo zero). Lo stesso prodotto mostra livelli più alti di arsenico che, seppur inferiori ai limiti di legge, sono i maggiori del nostro panel.
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