
Gli italiani sono abituati al bombardamento di spot pubblicitari da parte delle catene di arredamento, tanto brave a solleticare l’interesse dei potenziali acquirenti quanto a celare il non rispetto dei diritti dei lavoratori e le promozioni farlocche
Tra le pubblicità più martellanti ci sono quelle delle catene di arredamento. Non è storia recente: dal celebre “provare per credere” di Aiazzone fino a “artigiani della qualità” di Poltronesofà (per altro costato al brand una sanzione in Francia), le promesse di risparmio per i clienti non mancano. Ma tanto è sovraesposta la parte del marketing, tanto sono oscuri ai più i meccanismi di funzionamento di questa categoria di negozi. Meccanismi non sempre trasparenti, sia per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, sia per le politiche di promozione dei prodotti, spesso incentrate su comunicazioni ambigue quanto non proprio disoneste nei confronti dei clienti.
Dipendenti e consumatori, i due anelli deboli
Marco ha 29 anni, e dal 2018 lavora nel settore. Durante questi anni è stato in diverse catene di arredamento, come Arredissima, Chateau d’Ax, Behome e Mondo Convenienza. Qualche settimana fa ha deciso di contattare il Salvagente per raccontare la sua storia, senza però voler precisare in quali di questi punti vendita sono accaduti i fatti che ci descrive. “Le ore di lavoro effettive – spiega Marco – spesso superano quelle contrattuali, con appuntamenti oltre l’orario di chiusura e straordinari non sempre riconosciuti. L’ingresso in azienda avviene frequentemente tramite agenzie interinali, con stage a compenso ridotto e contratti part time che richiedono disponibilità molto flessibile. Alla fine di questi percorsi la stabilizzazione è rara, anche in presenza di buoni risultati”.
Lavoratori spiati
Chiediamo a Marco di entrare nel dettaglio. Ci parla di videosorveglianza dei lavoratori. “Un giorno è arrivato un tecnico e ha cominciato a montare telecamere su tutte le scrivanie insieme a un sensore di movimento. Abbiamo chiesto informazioni, il direttore ci ha detto che serviva a conteggiare il passaggio delle persone, ma allora perché non metterlo all’ingresso? Temevano forse che rubassimo o che non lavorassimo abbastanza? Dopo le mie rimostranze, ha fatto scollegare le telecamere”.
Le missioni fuori dall’orario di lavoro
C’è poi la questione delle mansioni non incluse nel contratto e di quelle non pagate. Ce lo conferma un dipendente di un negozio di arredamento che vuole restare anonimo, e che chiameremo Massimo: “Io lavoro qui ormai da 15 anni, e sono ancora inquadrato come un quinto livello del contratto nazionale del commercio, come quasi tutti i miei colleghi. Per capirci, è il livello di un aiuto-commesso, ma noi siamo architetti che fanno anche una sorta di lavoro di progettazione per i clienti”. Massimo racconta anche delle missioni fuori orario di lavoro. “A volte dobbiamo andare a casa dei clienti per prendere delle misure rispetto a una cucina da montare, o a una stanza da letto. Il titolare ci manda sempre fuori dall’orario di lavoro previsto. Oltre al fatto che sono mansioni che dovremmo svolgere all’interno del nostro turno, la questione è la copertura assicurativa. A un mio collega è capitato un incidente stradale mentre andava da un cliente. Per non mettere nei guai il proprietario del negozio, ha preferito non farsi refertare all’ospedale, nonostante alcuni dolori dovuti all’impatto”. E per quanto riguarda le provvigioni, fino a qualche anno fa queste erano pagate in nero, “ora il titolare si è voluto tutelare e le ha inserite in busta paga, ma senza aumentarne l’importo, con la beffa per noi che essendo tassate ci rimangono molti meno soldi”.
Come si spingono i clienti a comprare
C’è poi, come accennava Marco, la parte relativa alle politiche per spingere i clienti a comprare. “Quando un cliente arrivava in negozio, non veniva subito seguito da un venditore, ma passava da un consulente – spiega Marco, relativamente a uno dei punti vendita di una grossa catena per la quale ha lavorato – e quest’ultimo aveva il compito di raccogliere informazioni attraverso una sorta di intervista preliminare, che veniva trasformata in una scheda psicologica del cliente”. In queste schede venivano annotati non solo i bisogni di arredo e i tempi previsti per l’acquisto, ma anche osservazioni soggettive, ad esempio se la persona appariva un “basso spendente”, come quasi sempre avveniva per gli stranieri, o altre considerazioni di tipo personale. “Una volta raccolte, queste schede venivano consegnate al responsabile, che aveva il compito di distribuirle ai venditori in base al budget del cliente. In questo modo veniva determinata non solo la priorità dei clienti, ma anche il tipo di pressione commerciale che i venditori avrebbero dovuto esercitare”. Marco spiega anche come con questa divisione di categorie, i superiori potevano convogliare i casi più difficili sui venditori da mettere in difficoltà.
Occhio ai “prezzi furbi”
Non mancano i cosiddetti “prezzi furbi”, come li chiama il nostro stesso informatore: “In uno dei posti dove ho lavorato, succedeva spesso che un divano esposto venisse proposto con diverse promozioni a seconda del mese. Poteva capitare, per esempio, che un articolo dal prezzo di listino di mille euro fosse offerto a metà prezzo con lo sconto del 50%. Passato un mese, la promozione cambiava: non più il 50 ma il 75%. Il cliente, che magari era un abituale del quartiere, tornava a controllare il prezzo e si accorgeva che, in realtà, non era cambiato nulla. Noi, infatti, tagliavamo il cartellino vecchio e lo sostituivamo con quello della nuova promozione, ma il prezzo finale restava identico. Questa pratica era chiamata dei prezzi furbi”. Non è l’unica tecnica poco etica: “In concreto, si pubblicizzava un modello più economico – ad esempio un divano due posti in tessuto – ma il cartellino veniva appoggiato sul divano grande in pelle, molto più costoso. Il cliente pensava che il prezzo riguardasse proprio quel divano che stava guardando, salvo poi scoprire al momento della trattativa che l’offerta valeva solo per una versione ridotta o con materiali diversi”. Le differenze di prezzo erano notevoli: un divano in tessuto poteva costare intorno ai 1.000-1.200 euro, mentre la versione in pelle dello stesso modello arrivava facilmente a 2.000-2.500 euro.
“Fino a esaurimento scorte…?”
Un altro escamotage è quello del “fino a esaurimento scorte”: al cliente viene detto, per esempio sul sito dell’azienda, che il prezzo promozionale è valido solo fino al termine delle disponibilità. In realtà, quei divani non sono mai realmente vendibili a quel prezzo. “Se un cliente chiede spiegazioni – aggiunge Marco – si risponde che le scorte sono terminate”. La logica è semplice: attirare il cliente, portarlo dentro al punto vendita, farlo sedere e poi spingerlo su un prodotto reale a un prezzo molto più alto. “Lo stesso sistema l’ho ritrovato anche in altri mobilifici – continua Marco – ma in generale, se un cliente mostrava la disponibilità a spendere di più, il prezzo veniva ‘adattato’ di conseguenza. I margini erano enormi: un divano che l’azienda pagava 2.900 euro poteva essere venduto tranquillamente a 9mila”. Su questo genere di furbizie, Massimo non ha esperienze dirette, ma sa che alcuni altri negozi concorrenti le adottano spesso: “Da noi al massimo si gioca un po’ con il prezzo con o senza Iva. Magari partiamo per un divano da 4mila euro, poi aggiungiamo Iva e trasporto, e alla fine togliamo queste due voci come sconto. Il prezzo è quello iniziale, ma al cliente sembra di aver risparmiato”. Tutti trucchi che raccontano di un mondo in cui “provare per credere” a volte non conviene affatto.









