Quando il neonato piange, la prima tentazione è prenderlo in braccio per cullarlo e calmarlo. E se dovesse abituarsi? Quando dobbiamo cedere e quando no? Ne abbiamo parlato con Luca Tommasi, Professore ordinario di Psicobiologia all’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara
Il bambino piange e si dimena. Ti guarda con due occhi pieni di lacrime che sembrano dire “Mi prendi in braccio!” Quante volte sarà capitato che appena si sia preso il piccolo tra le braccia, lo si sia cullato e il pianto magicamente cessa. Un gesto consolatorio, di affetto quello del prendere in braccio il bambino. E se poi si dovesse abituare? Come si dice, “e se dovesse prendere le misure”? Non c’è da preoccuparsi: “La letteratura scientifica sul tocco sociale (social touch) ci insegna che il contatto ravvicinato con il neonato è importantissimo per la nostra specie, così come per molte altre specie animali. Siamo degli animali sociali, quindi il nostro cervello si è evoluto in modo tale da risultare estremamente sensibile a gesti come l’abbraccio”, ci spiega Luca Tommasi, Professore ordinario di Psicobiologia presso il Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara e coordinatore di due studi che dimostrano la relazione tra empatia, stili di attaccamento e lato preferito nel cullare i bambini.
Professore, tenere in braccio un bambino è un po’ come abbracciarlo, quali gli effetti positivi?
Anche un breve abbraccio abbassa la pressione sanguigna e diminuisce il rischio di infezioni. Inoltre, un abbraccio è in grado di migliorare l’umore generale per un giorno intero e di ridurre significativamente l’ansia che precede un evento potenzialmente stressante (come un colloquio di lavoro o un esame universitario). Questo accade perché il contatto con un’altra persona riesce a ridurre la produzione di cortisolo, il cosiddetto “ormone primario dello stress”. Non bisogna avere il timore di tenere in braccio il proprio bambino perché, anche se non lo possiamo vedere a occhio nudo, il contatto stretto fa bene sia a lui/lei che alla persona che lo/la stringe. Un neonato, infatti, non può abbracciare volontariamente la persona che si prende cura di lui/lei, né può esprimere con le parole le proprie necessità; ne consegue che il pianto finalizzato alla richiesta della presa in braccio da parte del caregiver sia uno dei pochi atti comunicativi che è in grado di eseguire. Con il tempo, questa necessità andrà a diminuire gradualmente e in modo naturale.
Cosa significa “stare in braccio” per un bambino molto piccolo?
“Stare in braccio” per un neonato significa grosso modo quello che, per noi adulti, significa stare a casa nel comfort del proprio nido familiare. Il neonato viene dato in braccio alla madre non appena viene messo al mondo; è sempre in braccio alla madre quando inizia a mangiare, quando si addormenta o si abbandona a diversi stati di coscienza. Per un bel pezzo, stare in braccio rappresenta tutto il mondo del bambino. I primi mesi di vita, però, rientrano anche in quello che solitamente definiamo “periodo critico” dello sviluppo del cervello del bambino. Durante le prime settimane, il sistema sensoriale e percettivo del bambino entra in contatto con l’ambiente esterno, un insieme enorme di fattori necessario per innescare i meccanismi biologici che porteranno il suo cervello, e quindi il suo comportamento, a maturare.
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Una necessità quindi da non confondere con una cattiva abitudine…
In natura esistono specie i cui neonati nascono già pronti per affrontare il mondo esterno. La nostra specie, invece, è tra quelle contraddistinte dalla cosiddetta altricialità. In poche parole, la sopravvivenza dei neonati umani, per un periodo piuttosto lungo, dipende completamente dalle cure del genitore. Senza quest’ultimo, i neonati morirebbero perché non sono in grado di muoversi, procacciarsi il cibo, fuggire da una minaccia. Dunque, io direi che il bisogno manifestato dal neonato di essere tenuto in braccio non sia nient’altro che l’espressione di una necessità biologica dei piccoli della nostra specie (così come dormire, mangiare, ecc.) e, in quanto tale, non dovrebbe suscitare timori o diffidenze da parte degli adulti.
E quando i bambini diventano più grandi?
Tenere spesso in braccio il proprio bambino nelle prime fasi dello sviluppo, probabilmente, l’aiuterà ancora di più ad avventurarsi nell’ambiente esterno con sicurezza e fiducia maggiori. Dunque, non abbiate timore se il vostro bambino sembra voler stare sempre in braccio durante i primi mesi.
Cosa suggerire al genitore che non riesce ad adattarsi, per sua attitudine o necessità, a un eventuale bisogno continuo del bambino di essere tenuto in braccio?
Immagino che alle volte le necessità di contatto del bambino possano sembrare esasperanti e incompatibili con le attività quotidiane del genitore. Tuttavia, la relazione genitore-figlio, se vissuta in modo positivo e proattivo, dovrebbe tendere ad una sorta di auto-regolazione dinamica. Quindi, innanzitutto, mi sento di rassicurare il genitore esausto e gli/le dico: è normalissimo essere esausti! Poi, gli/le consiglierei di stimolare e tenere attivo il bambino coinvolgendolo nelle proprie attività e guidandolo nella gestione della relazione fin dall’inizio.
Molti bambini amano addormentarsi in braccio, essendo cullati. O viceversa, molti genitori amano cullare e addormentare i propri figli in braccio. Cosa ne pensa?
Non ci sono molti studi scientifici in merito, quindi più che altro potrei rispondere riferendomi, per analogia, ad altri studi. Tuttavia, sappiamo che cullare il neonato per farlo addormentare rappresenta una sorta di calmante naturale per il bambino. Forse non se ne accorge, ma anche l’adulto riceve dei benefici – o perlomeno li riceve il suo cervello, visto che i suoi muscoli non sempre sono dello stesso parere! Anche in questo caso, quindi, mi sento di tranquillizzare chi ha o sente di avere questa propensione per tutti i motivi descritti in precedenza.
Nel 2019 lei ha coordinato un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Chieti per due studi sulla relazione tra empatia, stili di attaccamento e lato preferito nel cullare i bambini. Cosa è emerso?
Sono in realtà diversi anni che io e i ricercatori del Laboratorio di Psicobiologia che dirigo studiamo la lateralizzazione del comportamento di cradling (termine inglese con il quale indichiamo proprio l’atto di cullare i neonati tra le braccia). In particolare, tutto il lavoro su questo tema è stato svolto soprattutto grazie a due miei preziosi collaboratori, Gianluca Malatesta e Daniele Marzoli. Lo studio del comportamento di cradling, a livello scientifico, è iniziato negli Stati Uniti nel 1960 e ha visto avvicendarsi ricerche svolte da molti gruppi esteri. In Italia siamo gli unici a studiarlo.
Iniziamo col dire che lo studio scientifico del cradling laterale pone molti problemi metodologici. Le mamme sapranno che, spesso, sorreggono i bambini su un lato piuttosto che su un altro solamente per mere questioni pratiche, ad esempio, se devono rispondere al telefono. Tuttavia, se si chiede loro anche solo di immaginare una situazione ideale nella quale cullano il proprio bambino, ad esempio, perché sta piangendo e vorrebbero calmarlo, l’80% riferirà di tenerlo a sinistra. Non è una questione di preferenza manuale: anche le mamme mancine, infatti, preferiscono cullare a sinistra. Nella nostra ipotesi, il motivo risiede nel fatto che l’emisfero destro del nostro cervello (che controlla la parte sinistra del corpo e lo spazio circostante sinistro) è più “bravo” dell’emisfero sinistro nell’elaborazione degli stimoli socio-emotivi, soprattutto se provengono dai volti. Noi riteniamo che una preferenza laterale atipica nel cullare i bambini potrebbe essere un indice di differenze funzionali nella sfera socio-emotiva e comunicativa.
Rispetto alle mamme quale il risultato in merito alla correlazione tra il cullare a sinistra e stati d’animo?
Nei nostri studi pubblicati nel 2019 abbiamo valutato i livelli di depressione e le competenze empatiche in un campione di 50 mamme di bambini da 0 a 3 anni. Le analisi di correlazione hanno mostrato che le mamme che preferivano cullare a sinistra erano, per semplificare, meno depresse e più empatiche. In un secondo studio, invece, abbiamo testato la preferenza laterale in 288 giovani donne cui veniva chiesto di cullare una bambola. In questo caso, abbiamo scoperto che le donne che cullavano a sinistra mostravano un legame di attaccamento di tipo ottimale nei confronti della propria madre e del proprio partner romantico rispetto alle donne che cullavano a destra. Presi insieme, questi risultati confermano decisamente l’associazione cradling sinistro e competenze socio-affettive, gettando nuova luce anche sul ruolo che l’emisfero destro ha nello svolgimento di determinate funzioni
Perché cullare dal lato sinistro sarebbe associabile a migliore sviluppo cerebrale e rapporti sociali?
I fattori ambientali e i fattori epigenetici sono in grado di causare o impedire l’espressione di determinati geni. Secondo noi, quindi, esporre il neonato a determinati comportamenti laterali e a determinati stimoli sensorimotori lateralizzati durante il cosiddetto periodo critico dello sviluppo cerebrale (soprattutto nelle prime settimane di vita), può innescare e guidare lo sviluppo delle funzioni cerebrali tipiche del bambino. Questa semplice azione, quindi, avrebbe un ruolo più importante di quanto si creda: sarebbe la chiave, o una delle chiavi, in grado di innescare i processi di sviluppo insiti nel cervello del bambino.
E se una mamma preferisce cullare a destra il proprio neonato?
Mi sento di rassicurare che non sarebbe un’abitudine in grado di inficiare lo sviluppo del bambino. Ovviamente, nemmeno “spostarlo” deliberatamente a sinistra sarebbe utile a sortire un qualsiasi effetto positivo. Nessuno studio, infatti, ha mai proposto un approccio causale per cui una preferenza sarebbe migliore dell’altra. Quindi, tenere a destra non è assolutamente la causa di eventuali problemi nello sviluppo del bambino.