“A Gaza non c’è nessun genocidio”. Una polemica solo per chi non vuol vedere

GENOCIDIO

Un (ex)abbonato fa polemica sul nostro servizio di settembre sul boicottaggio e la strage di palestinesi. Sull’ultimo numero abbiamo deciso di rispondere a una domanda: si può utilizzare il termine genocidio in questo caso?

 

“Dopo avere ricevuto l’ultimo e secondo numero del mio abbonamento al Salvagente voglio disdire l’abbonamento. Per una ragione molto semplice: a Gaza non c’è nessun genocidio (una parola che ricorda un solo genocidio, quella dei sei milioni di ebrei in Europa) e quelle di Francesca Albanese sono solo farneticazioni dovute all’odio contro gli ebrei”.

Cari lettori,
dopo il nostro servizio di settembre sulla Palestina ci sono arrivate diverse mail di ringraziamento. Abbiamo però voluto riportare la reazione negativa, per quanto isolata, che avete letto perché ci consente più di una riflessione. Sgombriamo subito il campo dalle “farneticazioni” alle quali fa riferimento il nostro (ex) abbonato. Le parole di Francesca Albanese sono tutt’altro che sconclusionate e immaginarie, basterebbe aver letto il suo lungo e documentato report per capire che si basano su dati di fatto documentati (la cui denuncia è ancora pagata a caro prezzo dalla relatrice speciale delle Nazioni Unite) e non basta attribuirle a un presunto odio per gli ebrei per contestarle.
Ma veniamo al punto che da tempo divide la politica così come l’opinione pubblica: il termine genocidio. Si può utilizzare questa terribile parola per definire quanto sta accadendo a opera del governo israeliano nei confronti dei palestinesi?
Perfino il Parlamento europeo non ha ancora sciolto questo nodo, evitando di citarlo nella risoluzione dello scorso 11 settembre.
Le parole, diceva Nanni Moretti, sono importanti. E allora partiamo da quelle messe nero su bianco dalla Risoluzione 96 dell’Assemblea generale Onu dell’11 dicembre 1946: “Il genocidio è una negazione del diritto all’esistenza di interi gruppi umani, come l’omicidio è la negazione del diritto alla vita dei singoli esseri umani; tale negazione del diritto all’esistenza sconvolge la coscienza dell’umanità, provoca gravi perdite sotto forma di contributi culturali e altri rappresentati da questi gruppi umani, ed è contraria alla legge morale e allo spirito e agli scopi delle Nazioni Unite. Molti casi di tali crimini di genocidio si sono verificati quando gruppi razziali, religiosi, politici o di altro tipo sono stati distrutti, in tutto o in parte”.
Continuare a dibattere se di fronte a quello che sta facendo il governo israeliano, con stragi continue di civili, compresi donne e bambini, deportazioni di una popolazione, assassini mirati di giornalisti, distruzione sistematica di scuole, ospedali e case, riduzione alla fame e alla carestia, sia il caso di parlare di genocidio piuttosto che di un crimine contro l’umanità o di un crimine di guerra, potrebbe apparire come un guardare il dito e non la luna.
Ma non è totalmente vero e non è solo una questione semantica. Ha scritto molto efficacemente nei giorni scorsi Antonio Míguez Macho, professore di Storia contemporanea, dell’Università di Santiago de Compostela: “Definire genocidiale la violenza di Israele in Palestina non fermerà le uccisioni, ma nemmeno lo farebbe qualsiasi altra classificazione giuridica. Accettare questa interpretazione serve solo a spostare l’attenzione sul vero responsabile: la politica”.
Aggiungendo: “L’uso del termine genocidio prevede che ci sia una base politica e ideologica che giustifichi – a livello istituzionale e collettivo – l’annientamento di un popolo e della sua cultura, rappresentandolo come un’azione legittima o addirittura auspicabile”. A chiunque sia nota la politica di apartheid che Israele pratica da decenni nei confronti dei palestinesi, così come la sottrazione delle terre (in Cisgiordania e altrove) non può non essere evidente un disegno preciso. Non si tratta di indicare il dito e non la luna, ma di non chiudere gli occhi.