Un uomo ridotto in schiavitù nelle campagne a soli 80 chilometri da Roma. Per sei anni, fino a quando Balbir ha trovato il coraggio di denunciare grazie all’aiuto del sociologo Marco Omizzolo che insieme a lui ha scritto un libro e ci racconta com’è andata
Un uomo ridotto in schiavitù a soli 80 chilometri da Roma. Per sei anni, fino a quando Balbir ha trovato il coraggio di denunciare i proprietari dell’azienda agricola che lo tenevano segregato nell’Agro Pontino. Senza l’aiuto di Marco Omizzolo non ce l’avrebbe probabilmente mai fatta, Omizzolo, docente di sociopolitologia delle migrazioni alla Sapienza di Roma e ricercatore Eurispes, da vent’anni studia, denuncia e agisce proprio tra i campi della provincia di Latina a fianco dei braccianti vittime del caporalato (per il suo impegno è stato insignito nel 2019 del titolo di cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana). Marco e Balbil hanno raccontato insieme la storia del bracciante indiano nel libro “Il mio nome è Balbir” (edizioni People, 144 pp.).
Omizzolo, come nasce questo libro?
Nasce da una esigenza fondamentale, che ho vissuto in prima persona, anzi in realtà da più esigenze. Una è la necessità di raccontare una storia che ha dei risvolti drammatici e che ho vissuto in prima persona. Quindi questa è la storia dell’esperienza di Balbir come bracciante indiano che nell’agropontino viene ridotto in schiavitù, ma è anche la mia storia personale di come con Balbir siamo riusciti a riottenere libertà e giustizia.
In che veste operi in quel territorio?
Sono un sociologo, che svolge un’attività che non è soltanto di ricerca tradizionale di natura accademica. Io insegno sociopolitologia delle migrazioni alla Sapienza a Roma e sono sociologo per Eurispes, ma ho una metodologia particolare che insieme all’approfondimento e all’inchiesta sociale è anche azione.
Come?
Quindi nel territorio non vado soltanto per fare interviste, esplorazione, riflessione teorica, ma avvio un percorso di impegno, di lotta, di emancipazione, di organizzazione per il riconoscimento dei diritti fondamentali nei conflitti di tutti e tutti coloro che invece vedono questi diritti violati. Prevalentemente immigrati, ma non soltanto.
Tornando alla storia di Balbir, in che condizioni viveva quando l’hai incontrato?
Balbir viveva una situazione particolare perché per sei anni è stato ridotto in schiavitù era obbligato a vivere dentro una roulotte senza acqua e gas, posizionata dentro l’azienda dell’imprenditore criminale nelle campagne di Latina. Quindi Balbir, per sei anni, veniva picchiato, gli erano stati sequestrati i documenti, obbligato a lavorare come riconosce il comando provinciale dei Carabinieri di Latina. Anche 18 ore al giorno.
365 giorni l’anno se non sbaglio.
Lui stesso più volte mi dice “io non ho mai avuto un giorno di riposo”. Lavorava in stalla, nella campagna, e anche nel ristorante di quest’azienda che aveva un agriturismo, un ristorante, facendo le pulizie. La retribuzione che è stata riconosciuta dal Comando Provinciale dei Carabinieri mensile variava tra 50 e 150 euro al mese.
L’azienda era tenuta da chi?
Era un’impresa familiare di persone del posto, note già le forze dell’ordine. L’azienda non ha un nome specifico, ma la famiglia che gestiva quest’azienda è la famiglia Di Bonito. Sono stati condannati a maggio di quest’anno.
Che tipo di codanna?
5 anni di carcere e a 12 mila Euro di risarcimento per il titolare.
I prodotti di questa campagna dove finivano?
Prevalentemente nel ristorante dell’agriturismo, quindi era autoproduzione e una quota piccola finiva attraverso la vendita ai locali.
Nell’agropontino lo sfruttamento dei lavoratori non è purtroppo una notizia in sé, però il caso di Balbir è ancora più drammatico. Come si è trovato in questa condizione?
Casualmente: era arrivato regolarmente in Italia, e aveva lavorato per altre aziende in maniera più o meno regolare, non era certamente schiavitù, l’ultima azienda nella quale ha lavorato, semplicemente ha chiuso. Il proprietario quindi ha consigliato a Babir di trovare lavoro altrove e gli ha consigliato un’azienda.
E Babir ha bussato alla porta di quest’ultimo imprenditore…
Il quale prima ha stretto una serie di accordi, quindi un contratto regolare, una retribuzione regolare, eccetera, ma subito dopo, una volta che Balbir è entrato a lavorare in questa azienda, questa dimensione concordata è diventata invece una vera e propria riduzione in schiavitù.
Come è successo?
Il datore di lavoro intanto gli ha trattenuti i documenti, dicendo che ne aveva bisogno per permettergli il rinnovo degli stessi. In realtà questo non è stato mai fatto, quindi Balbir dentro quest’azienda è diventato irregolare. E non potendo rinnovare il permesso di soggiorno è diventato quello che viene comunemente definito un clandestino. E quindi questa condizione ha contribuito alla sua segregazione.
Perché?
Perché lui si sentiva clandestino nel paese, quindi temeva che rivolgendosi alle forze dell’ordine potesse essere arrestato, che potesse essere non creduto, e quindi vincolato in quella dimensione, e in più era ridotto alla fame. Quindi non poteva certo scappare, prendere un treno e tornare in India perché proprio non aveva denaro, neanche per fare 100 metri.
A livello di relazioni era completamente isolato?
No, c’erano altri. Un italiano e un ucraino, ma tutti e tre, quindi Balbir, l’italiano e l’ucraino, come racconto nel libro, vivevano la stessa identica situazione.
E neanche loro avevano la forza di denunciare?
No, sia l’ucraino che Balbir non avevano proprio la possibilità perché erano segregati, vivevano condizioni per cui se si ribellavano, se non si presentavano al lavoro eccetera, venivano picchiati, minacciati di morte. A Balbir più volte è stata puntata da parte del padrone una pistola.
E l’italiano?
Lui non era un irregolare, ovviamente, ma comunque viveva una condizione di violenza e di subordinazione così elevata che non riusciva ad andare via, aveva così tanta paura da restare incastrato. Alla fine solo Balbir ha denunciato, gli altri due lavoratori sono andati via.
Come è entrato in contatto con te?
Un cortocircuito fortuito, perché dentro quest’azienda ad un certo punto entra il furgoncino di un venditore ambulante indiano, con l’obiettivo semplicemente di vendere prodotti a quel ristorante. Balbir vede questo ragazzo indiano, che poi è uno dei leader che con me ha organizzato gli scioperi, lo vede e lo riconosce perché aveva il turbante, la barba, si avvicina velocemente in maniera molto rapida, gli chiede aiuto, raccontandogli proprio in tre parole, chiaramente in punjabi (lingua usata in India, ndr) la sua condizione. E questo ragazzo mi racconta di questa situazione .
A quel punto come ha proceduto? Con una segnalazione alle autorità?
Io mi sono inventato una metodologia basata su una sorta di cavallo di troia. Non potevo presentare semplicemente una denuncia alle forze dell’ordine perché Balbir era un irregolare. Non potevo rischiare che oltre all’arresto del padrone si verificasse anche l’espulsione di Balbir.
E quindi?
Ho fatto recapitare, dentro una busta dell’immondizia dei beni di prima necessità, degli abiti, insieme ad un cellulare caricato con delle mie fotografie, dei miei video di tutorial e il mio cellulare. L’abbiamo buttato a ridosso dell’azienda come se fosse una busta di rifiuti, in maniera tale da non destare curiosità o attenzione da parte del padrone e della famiglia, e Balbir è riuscito a prendere di notte questo sacco.
E da lì?
Per alcuni mesi io e Balbir abbiamo comunicato con il cellulare di notte. All’inizio io e lui parlavamo semplicemente del più e del meno perché non potevo essere diretto sapendo che lui viveva anche una condizione in cui rischiava il suicidio.
Quindi di che cosa parlavate?
Ci presentavamo, ridevamo, lui era alcolizzato, quindi io anche dall’altra parte del telefono in videochiamata facevo finta di bere e di ubriacarmi con lui fino a quando ho costruito un rapporto di fiducia, ho iniziato a parlare di diritti, della possibilità di fare chiedere aiuto e di denunciare il padrone. Quando mi ha detto “io sono pronto, ho capito che non sono solo, che mi puoi aiutare davvero”, a quel punto ho parlato con il Comando provinciale dei carabinieri.
E sono partite le indagini…
L’attività d’indagine è durata un mese e mezzo, compresa di intercettazione, al termine della quale si è intervenuto liberando Balbir e fotografando la situazione che io sto raccontando. E Balbir ha denunciato il padrone, si è costituito con me parte civile nel processo, e per questo suo atto di coraggio ha avuto il permesso di soggiorno per motivi di giustizia per la prima volta rinnovabile e convertibile.
Cosa cambia?
Prima di Balbir i permessi di soggiorno erano soltanto rinnovabili il tempo della durata del processo, poi decadevano. Grazie ad un imprenditore che ha garantito a Balbir un contratto di lavoro più stabile e più lungo, questo atto di trasformazione del permesso di soggiorno per motivi di giustizia in un permesso per per soggiornanti di lungo periodo ha cambiato la disciplina normativa italiana e che ha costituito un precedente. Ha permesso di seguire il processo ma anche di lavorare in regola.
Dopo la denuncia, Balbir ha vissuto un periodo difficile?
Molto, perché il padrone lo cercava, gli mandava sul cellulare messaggi in cui lo invitava ad incontrarlo. Siccome Balbir, dalla legislazione nazionale, non è un testimone di giustizia, non aveva una protezione e quindi per diversi mesi personalmente con la mia associazione, Tempi moderni, ci siamo occupati della sua sicurezza e anche del suo sostentamento perché non poteva andare a lavorare, non poteva esporsi.
E adesso lui dove lavora?
Lui adesso ha svolto diversi lavori, ma attualmente lavora sempre come bracciante in provincia, però con una situazione regolare.
Omizzolo, da 20 anni si occupa di caporalato nel sud del Lazio. Quanto è cambiata la situazione nell’agropontino nel frattempo?
È diventata più complessa, non c’è un cambiamento né positivo né negativo, la situazione è diventata molto più articolata perché anche grazie a questo impegno e alle denunce, alle mobilizzazioni, alle sentenze molti lavoratori e lavoratrici sono usciti da quella condizione di vulnerabilità e di sfruttamento, altri però ci sono ancora e altri ci stanno cadendo.
Perché?
In questo paese continuano a vincere norme e procedure che vanno verso la direzione dello sfruttamento, a partire dalla Bossi-Fini e dal sistema a quote. Quindi se da una parte si riescono a costruire dei percorsi di emancipazione, di liberazione, di affermazione del diritto, come nel caso di Balbir e di molti altri, dall’altra parte continuano ad arrivare persone che sin dal momento in cui partono da casa loro sono destinati a vivere condizioni di sfruttamento e di emarginazione.
Chi ci guadagna oltre l’imprenditore?
L’interesse che non è soltanto quello dell’imprenditore criminale, ma anche di tanti libri professionisti, un insieme di commercialisti, avvocati, consulenti del lavoro, consulenti agrari etc., che anziché operare nella legalità e nel rispetto della legge, preferiscono stare dalla parte del ricco e del potente datore di lavoro, prestando i loro servizi per nascondere lo sfruttamento.
E non parliamo solo di piccole aziende…
Le aziende in provincia di Latina che sfruttano non sono sempre piccole, sono anche di medie e grandi dimensioni, hanno una struttura amministrativa, hanno dei commercialisti, che sanno perfettamente come stanno le cose dentro quell’azienda, chi fa le buste paga… sono complici, hanno una responsabilità.
Quello di Balbir, però, è proprio un caso di schiavitù nel centro del paese. Com’è possibile che le autorità non se ne siano accorte?
Balbir è stato schiavizzato a 80 chilometri dal Parlamento italiano, da Roma. È uno schiavo che sta sotto il balcone delle istituzioni. In più l’azienda era attaccata alla Pontina, una delle strade più trafficate, i datori di lavoro erano controllati dalle forze dell’ordine. Questo sta a indicare che in primis il controllo del territorio non è capillare. Noi non abbiamo un territorio che è controllato da tutti quegli organi che sono deputati al controllo.
Anche perché erano in tanti a potersi e doversi accorgere di Balbir.
Non solo le forze dell’ordine, ma anche gli ispettori dell’Asl, del lavoro, un pezzo sindacato, che non sono mai entrati in quella azienda. Le amministrazioni comunali non hanno il controllo completo del territorio, altrimenti dopo sei mesi lo avrebbero tirato fuori da lì, non dopo sei anni.
Quali sono le ragioni alla radice di queste mancanze: disinteresse, troppi o pochi fondi, collusione?
Una serie di ragioni: certo pochi fondi, poco personale, personale poco addestrato, maggiore attenzione su altri reati. È più facile arrestare uno spacciatore. Ma secondo me deriva da un’altra situazione, lo sfruttamento conviene. Cioè lo sfruttamento rispetto allo spaccio di sostanze produce milioni di euro ma in una forma che diventa anche organizzazione politica. Cioè il fatto che ci siano un po’ gli ispettori del lavoro, non è la conseguenza di una disorganizzazione per incapacità, ma di una volontà politica fattuale.
Non bisogna disturbare chi produce ricchezza, insomma…
Ma il Presidente del Consiglio il giorno di inaugurazione del suo governo ha detto “non disturberemo chi produce”. Sentendo quella dichiarazione mica ci si sente invogliati a denunciare o a chiamare il sindacato, a chiamare il giornalista, si sente l’istituzione dalla parte opposita.
Prima accennava al suo modo insolito di fare sociologia, intervenendo nel reale. A che esempi si ispira?
Due in particolare hanno molto condizionato la mia metodologia: uno è Danilo Dolci e il suo lavoro con i contadini di Partinico, e l’altro è Paolo Freire con la pedagogia degli oppressi in Brasile.
Cosa dicono di importante rispetto alla storia di Balbil?
La cosa fondamentale che entrambi dicono è che bisogna lavorare non per gli sfruttati, ma con gli sfruttati. Balbir viene liberato non da me, ma dal rapporto che io e lui abbiamo sviluppato. Io ho lavorato con lui per la sua liberazione. Non ho immediatamente denunciato il padrone, e poi capiti quel che capiti. Io ho lavorato perché lui prendesse coscienza. Balbir ha scelto poi la denuncia, l’azione, eccetera, perché ha preso coscienza di tutto questo e ha voluto giustizia. Quindi è un processo di emancipazione molto profondo della persona, un processo molto più faticoso, che richiede una profondità di analisi ed impegno molto difficile. In Italia è stata purtroppo dimenticata.
A chi consiglia di leggere questo libro?
Sono molto contento nel momento in cui viene adottato e letto negli istituti scolastici, non tanto nell’università ma proprio nelle scuole. Io penso che dovrebbe essere letto soprattutto dai giovani ragazzi e ragazze immigrati italiani presenti in questo paese, perché non è un libro di denuncia, è un libro che racconta come si può passare dal nero assoluto alla libertà. Non lasciare che l’angoscia prevalgaa, si può sconfiggere lo sfruttamento.