Pfas, nuovo studio dell’Università di Padova: legami con colesterolo alto e rischio d’infarto

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Un nuovo studio dell’Università di Padova rivela legami tra la presenza di Pfas nell’organismo e livelli alti di colesterolo e rischio d’infarto. L’autore Carlo Foresta spiega al Salvagente come agiscono le sostanze perfluoroalchiliche sul corpo umano

Un nuovo studio dell’Università di Padova rivela legami tra la presenza di Pfas nell’organismo e livelli alti di colesterolo e rischio d’infarto. Lo studio curato dal professor Carlo Foresta, studioso Senior Università degli Studi di Padova, in collaborazione con Alberto Ferlin, ordinario di endocrinologia, e Nicola Ferri, ordinario di farmacologia, è stato pubblicato sulla rivista internazionale “Toxicology Reports“. L’autore Carlo Foresta spiega al Salvagente come agiscono le sostanze perfluoroalchiliche sul corpo umano.

Professore, in che modo avete rilevato nello studio che c’è un collegamento tra i Pfas e livello di colesterolo e rischio di infarto?
In sintesi, la ricerca ha dimostrato che queste sostanze interagiscono con la membrana delle cellule del fegato e ostacolano il normale assorbimento di colesterolo, incrementandone quindi i livelli circolanti. È importante notare che questo effetto sembra sia dovuto a una ridotta plasticità della membrana cellulare, che impedisce la corretta funzionalità di tutti quei meccanismi di captazione del colesterolo. I risultati di questo studio permettono di comprendere il perché dell’importante aumento dei livelli di colesterolo ematici nelle popolazioni esposte (57% rispetto al 27% della popolazione generale). È noto che l’ipercolesterolemia è il principale fattore di rischio per le cardiopatie ischemiche (infarto, ipertensione), e infatti studi internazionali hanno dimostrato come Pfoa e Pfos comportino un aumento del 37% e del 54% rispettivamente di eventi cardiovascolari avversi.

Per la ricerca avete considerato Pfoa e Pfos. È possibile affermare che c’è una possibilità o addirittura una probabilità che gli stessi risultati si ottengano con Pfas dalla struttura simile?
Sicuramente molti composti della famiglia dei Pfas condividono similarità di struttura e funzione, ma anche differenze non trascurabili che ne possono modificare fortemente l’attività biologica. Diversi studi che mirano a verificare l’effetto dei Pfas spesso riportano alterazioni significative solo a carico di uno o pochi di questi composti, con grande variabilità a seconda del contesto cellulare considerato.

Qual è la fascia di popolazione più interessata da questo aumento di colesterolo, e perché?
I dati della Regione Veneto riportano un importante aumento dei livelli di colesterolo già nella fascia di popolazione oltre i 30 anni, l’ipercolesterolemia diventa poi sempre più accentuata col crescere dell’età. L’aumento di colesterolo con l’età è di per sé un fattore noto e quasi fisiologico, ma nel caso dei PFAS, questo incremento è ancora più forte. Considerato quindi il rischio cardiovascolare associato ad ipercolesterolemia, i soggetti con più di 50 anni sono quelli più a rischio per le patologie associate.

In altri studi avete scoperto anche altre correlazioni tra presenza di Pfas e organi umani. Quali sono le principali?
Tra le manifestazioni cliniche imputate all’esposizione a queste sostanze, vi è condivisione tra i diversi studi epidemiologici sugli aspetti materno-fetali (poli-abortività, basso peso alla nascita, nati pre-termine, endometriosi), fertilità maschile e femminile, ipercolesterolemia e diabete, osteoporosi, tireopatie, alterazioni cardio-e cerebro-vascolari, riduzione della risposta immunitaria e alterazioni nervose. Queste manifestazioni sono particolarmente evidenti nelle zone esposte a importante inquinamento industriale da queste sostanze, ma è interessante considerare che anche i bassi livelli di queste sostanze riscontrabili nella popolazione generale, come conseguenza dell’utilizzo di prodotti di uso quotidiano che contengono queste sostanze, possono costituire fattore di rischio per le sopracitate manifestazioni cliniche associate ai Pfas. Nella vita quotidiana è infatti veramente difficile evitare il contatto con i Pfas poiché queste sostanze oramai sono presenti in svariati prodotti di uso quotidiano (rivestimenti antiaderenti, packaging alimentare, abbigliamento impermeabile, prodotti cosmetici, ecc.).

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Avete trovato anche dei risultati interessanti relativamente al come agiscono.
I nostri studi effettuati negli ultimi 5 anni hanno permesso di identificare anche i possibili meccanismi attraverso i quali i Pfas determinano alcune di queste manifestazioni cliniche: ad esempio queste sostanze agiscono riducendo l’attività biologica del testosterone attraverso l’interferenza con il suo recettore. Inoltre, abbiamo dimostrato che si legano alle membrane degli spermatozoi riducendone la motilità e quindi la fertilità. Per quanto riguarda la poliabortività i Pfas riducono l’attività del progesterone a livello endometriale alterando quindi la capacità dell’endometrio di accogliere l’embrione e di supportarne lo sviluppo. Per quanto riguarda l’osteoporosi abbiamo dimostrato che i Pfas legano il recettore per la vitamina D riducendone l’attività e quindi riducendo l’assorbimento del calcio; questo fenomeno porta poi a un indebolimento della struttura scheletrica.

Visto che i Pfas si accumulano per tanti anni nell’organismo, esiste un modo per eliminarli (per esempio con dialisi nei casi più a rischio), o per limitarne gli effetti?
La riduzione dell’inquinamento ambientale è sicuramente il punto fondamentale, ma rimane il grosso problema della lunga permanenza di queste sostanze nell’organismo. Queste sostanze si accumulano in particolari organi (fegato, scheletro, sangue) e permangono per molti anni, in alcuni casi fino a 10 anni. Pertanto, anche se oggi azzerassimo completamente ogni fonte di esposizione a queste sostanze, quelle già accumulate negli anni precedenti resterebbero ancora in circolo negli organismi per molti anni. Ad oggi non è stato ancora individuato nessun metodo per ridurre il tempo di permanenza dei Pfas nell’organismo, pertanto l’accumulo sembra determinare alterazioni specifiche degli organi interessati. Gli inquinamenti industriali dovrebbero essere molto limitati e controllati. Laddove l’inquinamento sia avvenuto indipendentemente dai controlli, le acque, sia potabili che di falda, sono quelle che maggiormente veicolano l’inquinamento attraverso la rete acquedottistica ma anche attraverso l’irrigazione e il loro inserimento nel ciclo alimentare. Gli strumenti di difesa sono innanzitutto preventivi, mirati a ridurre il più possibile il rischio di esposizione della popolazione a queste sostanze. Nelle popolazioni già esposte per molto tempo ai Pfas, data l’elevata durabilità di queste sostanze, è invece fondamentale attuare interventi sanitari mirati ad eliminare queste sostanze dal sangue, ma ad oggi non sono ancora disponibili interventi terapeutici mirati e riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale. Per risolvere la questione dell’eliminazione dei Pfas dal corpo umano il nostro gruppo di ricerca presso l’Uoc di Andrologia e Medicina della Riproduzione dell’Azienda Ospedale Università di Padova, ha identificato sperimentalmente possibili forme di intervento basandosi sulle dinamiche di bioaccumulo di queste sostanze nell’uomo. Da un’intuizione sperimentale ispirata all’attuale tecnologia di filtraggio delle acque, basata sull’utilizzo dei filtri ai carboni attivi, è stato individuato un corrispettivo terapeutico nel carbone attivo vegetale ad uso umano. Il carbone attivo vegetale è una sostanza naturale in grado di trattenere al suo interno molte molecole, e che trova già impiego nel trattamento di intossicazioni da farmaci e avvelenamenti alimentari, nonché per il meteorismo intestinale. La nostra ipotesi sperimentale è stata quindi quella di drenare a livello intestinale i Pfas, rendendoli eliminabili con le feci.

Quali conseguenze dovrebbero trarre, dai risultati dei vostri studi, le istituzioni (dalla Regione, al governo fino all’Ue)?
Sulla base delle precedenti considerazioni, sarebbe opportuno che il problema fosse affrontato a livello istituzionale poiché la verifica clinica di questa ipotesi sperimentale, prima nel suo genere, potrebbe portare a dei risultati molto importanti, allo stato attuale non modificabili, per favorire l’eliminazione di queste sostanze dall’organismo.