Che cos’è il diritto alla riservatezza del coniuge e come viene tutelato dalla legge: i casi specifici e le sentenze di merito
Quando due persone decidono di sposarsi, così come stabilito dall’articolo 143 del codice civile, “assumono i medesimi doveri e diritti” e dall’istituto deriva “l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”. Una condivisione paritaria, dunque, del progetto familiare, nel quale tuttavia la giurisprudenza rimarca in più passaggi il diritto alla privacy dei singoli individui che compongono una coppia. Questo vuol dire che, malgrado l’unione matrimoniale, i coniugi unitariamente intesi possono rivendicare la tutela di un proprio spazio privato all’interno del quale non è consentito l’accesso ad altri, se non dopo previa autorizzazione. Si configura in questo modo il diritto alla riservatezza del coniuge che è invalicabile e rimarca come, nonostante l’unione sancita dal matrimonio, i due soggetti che fanno parte di una coppia restino due individui diversi e, dunque, hanno il diritto di poter mantenere il riserbo sulle attività non condivise e che non vanno a compromettere i doveri di assistenza morale e materiale verso la famiglia.
Cos’è il diritto alla riservatezza
Il principio cardine intorno al quale agisce il diritto alla riservatezza del coniuge è che ogni individuo, anche se unito in matrimonio con un altro soggetto, ha il diritto di vedere rispettata la propria sfera privata e personale. Questo implica che l’altra parte della coppia dovrà rispettare la privacy del partner e viceversa. Requisito fondamentale è però che non venga meno il dovere di assistenza tra coniuge che, come detto, impone loro di non andare a pregiudicare la comunione di vita familiare in favore dei soli interessi personali propri. Ecco dunque che finché un soggetto mostra solidarietà verso la propria famiglia ha il pieno diritto di contare anche sulla propria riservatezza. Sul tema si è più volte espressa anche la Corte di Cassazione, nelle sentenze n. 46202/2003 e, ancora prima, nella 6727/1994, ribadendo che la piena assistenza morale e materiale è realizzabile solo nel momento in cui tra i soggetti coinvolti c’è una piena e pari dignità.
La riservatezza tra coniugi
Da un punto di vista pratico, l’applicazione del diritto alla riservatezza del coniuge – che è tutelato dalla Costituzione e, dunque, non ammette deroghe – implica che tutti godono del diritto inviolabile della libertà e della segretezza della corrispondenza personale (art. 15 della Costituzione) e che, solo al verificarsi di specifiche ed eccezionali circostanze spinte da un interesse oggettivo, un altro soggetto – come ad esempio il coniuge – può chiedere di avere accesso alle informazioni contenute nelle lettere, nei messaggi o nelle email. Venire meno a questo schema comporta la configurazione di un reato e, dunque, si potrebbe essere condannati per aver spiato altrui materiale di natura privata. Più nello specifico, nel caso di una coppia unita in matrimonio, si avrebbe una violazione dei doveri coniugali. Poniamo, ad esempio, il caso in cui uno dei due coniugi decida di impedire, monitorare o interrompere le comunicazioni o le conversazioni del partner: in questa fattispecie, così deciso dall’art. 617 bis del codice penale, si sarebbe in presenza del reato di intercettazione fraudolenta che è punito dall’ordinamento con una pena detentiva che da 1 a 4 anni. Sul tema è intervenuta anche la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8821/2021 nella quale ha ribadito che l’intercettazione delle telefonate o della corrispondenza privata di un soggetto non può trovare giustificazione nella volontà del partner di scoprire e provare l’infedeltà del coniuge. Da un punto di vista pratico questo vuol dire che non è legale controllare le lettere, i messaggi di posta elettronica o quelli ricevuti via sms, WhatsApp o sui social network del proprio partner. Oltre che alla corrispondenza, il diritto alla riservatezza del coniuge si declina anche alla non diffusione di materiale intimo o imbarazzante che vede come protagonista il proprio o la propria partner. Ecco dunque che non si può, per legge, riprendere il/la coniuge mentre è in bagno senza il suo consenso, così come non si potranno diffondere delle foto intime o compromettenti. Il rischio, per chi non dovesse rispettare questi principi, è quello di incorrere nel reato di interferenza illecita nella vita privata definito dall’articolo 615 bis del codice penale. E ancora, si configura la violazione del diritto alla riservatezza del coniuge anche quando uno dei membri della coppia installa, nella casa condivisa e ad insaputa dell’altro/a, degli apparecchi atti a registrare le conversazioni telefoniche in un contesto di conflitto o di separazione già in atto. Non vengono esclusi da questi casi di violazione anche le situazioni nelle quali l’installazione dei dispositivi di registrazione è dovuta alla volontà di difendere l’interesse superiore dell’unità familiare.
I profili social del coniuge
Una pratica abbastanza diffusa nelle coppie è quella di condividere le credenziali di accesso ai profili social. Nel momento in cui la coppia ha una sua stabilità questo elemento non rappresenta un grande problema, che però potrebbe sorgere al manifestarsi di una crisi matrimoniale. Le credenziali di accesso, infatti, potrebbero essere utilizzate per accedere al profilo del o della coniuge e verificare la presenza di eventuali tradimenti o conversazioni amichevoli nelle quali si cerca un confronto sullo stato della propria crisi. C’è, dunque, un vero e proprio controllo dell’altrui profilo social che avviene senza il consenso del titolare dell’account. Chi utilizza abusivamente il profilo social potrebbe trovare del materiale compromettente per l’altra parte, scoprendo, ad esempio, un tradimento. Questo materiale impropriamente reperito non potrà tuttavia essere utilizzato in tribunale per dimostrare l’infedeltà del coniuge e negargli l’assegno di mantenimento. La Corte di Cassazione, infatti, nelle sentenze n. 2905/19 del 22/01/2019 e n. 2942/19 del 22/01/2019, ha sottolineato che la condivisione delle credenziali di accesso ai profili social non rappresenti “un’implicita autorizzazione all’introduzione nel profilo social dell’altro, del quale, in modo lecito, si è in possesso delle chiavi di accesso”. Anche in questo caso, il mancato rispetto della legge configura un reato, quello di abusivo accesso a sistema informatico. Ma le ipotesi di reato configurabili in situazioni di questo tipo non finiscono qui. Nel momento in cui, ad esempio, chi ha accesso all’altrui profilo simula di essere il titolare dell’account per ottenere altre e nuove informazioni compromettenti, commette il reato di sostituzione di persona. Dai discorsi fin qui affrontati emerge chiaramente come, nell’interpretazione resa dalla Suprema Corte, l’accesso al profilo social del partner che ha comunicato le credenziali di accesso rappresenti una situazione che deve essere trattata alla stregua del reato che avviene contro le volontà del titolare dell’account.
Controllare il telefono del proprio partner
Un’altra situazione molto comune nella vita di coppia che può intrecciarsi con il diritto alla riservatezza del coniuge è quella relativa al controllo, anche saltuario, del telefono dell’altra parte della coppia. In questo caso, rispetto a quello dell’accesso abusivo ai profili social altrui, vi è un maggiore grado di tollerabilità. Il Tribunale di Roma, nella sentenza n. 6432/2016, ha affermato che nel caso di una coppia unita in matrimonio il rispetto dell’altrui privacy può, in alcuni episodi, diventare meno pressante. Le ragioni sono da ricercarsi nel fatto che la coppia abita nella stessa casa e, dunque, è da considerarsi normale che gli oggetti personali di ognuno, come ad esempio lo smartphone, possano essere esposti alla possibile “condivisione, apertura o lettura, nonostante non sia stata autorizzata”. La lettura offerta dal Tribunale di Roma configura dunque la convivenza di un coppia sposata come una specie di manifestazione tacita di consenso alla conoscenza sia delle informazioni personali sia delle comunicazioni del coniuge. Va precisato che la sentenza indicata non deve essere interpretata nell’ottica che chi trova gli oggetti altrui in casa può liberamente accedere agli stessi, ma in quella della più semplice condivisione degli spazi e, dunque, verosimilmente anche degli oggetti personali, come appunto un telefono. Nel momento in cui gli oggetti di uno dei coniugi sono sono chiusi a chiave in un cassetto o conservati in un luoghi riservati e vi è, dunque, la volontà da parte del proprietario di creare un elemento di protezione, torna ad applicarsi il normale concetto di privacy. Se ne deduce che si avrà una violazione della sfera personale altrui se si rompe un lucchetto o si forza un cassetto chiuso a chiave per poter accedere al contenuto. È oltremodo necessario che l’elemento di protezione faccia palesemente intuire la volontà di estromettere l’altro coniuge dal suo utilizzo o consultazione: vi è dunque un lucchetto, una password, un codice, un cassaforte o simili a protezione del bene che si intende far rimanere privato.
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