Come tutelare la privacy tra colleghi di lavoro

PRIVACY COLLEGHI

Lavorare all’interno di un ufficio comporta una serie di obblighi per i dipendenti che fanno riferimento anche alla delicata sfera della privacy: ecco alcuni degli scenari possibili e quello che dicono le ultime sentenze a riguardo

Nonostante la pandemia abbia incentivato lo smartworking, ci sono milioni di italiani che lavorano in presenza, in ufficio o in fabbrica. La convivenza lavorativa con colleghi e superiori può avere aspetti positivi e negativi: se da un lato c’è la possibilità di avere un contatto umano costante, dall’altro possono spesso emergere problematiche gravi a tal punto da dover essere risolte da un punto di vista legale.

C’è, ad esempio, il delicato tema della privacy fra colleghi che non è di certo da sottovalutare. Cosa dice a proposito la normativa vigente? Ecco tutti i dettagli a riguardo.

Privacy e lavoro: qual è il quadro normativo

Prima di entrare più nel merito della questione è necessario spiegare in che modo nel nostro paese si può configurare tale reato. Esiste infatti una lunga serie di informazioni e dati personali riservati che devono rimanere tali, senza che nessun individuo possa avervi accesso previa autorizzazione.

Attualmente, la normativa italiana in vigore è riferita all’adattamento del Regolamento europeo sulla privacy 2016/679, che ha stabilito sanzioni civili o penali a seconda della natura del reato commesso.

Al di là di quello che dice la legge è evidente come nel mondo di oggi i cittadini (anche in funzione di una sempre più invasiva presenza on line, con i social e le comunicazioni aziendali) abbiano un’attenzione a questo argomento maggiore rispetto al passato. Proprio la violazione di questo tipo di diritto, sempre più spesso, porta al nascere di controversie anche molto importanti che possono mettere in pericolo persino i datori di lavoro.

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Il problema principale è che non è sempre chiaro quando un determinato tipo di comportamento possa essere effettivamente definito come illecito. Ecco perché è così importante analizzare il problema caso per caso, cercando di comprendere quali possono essere le motivazioni dietro ad azioni che, in alcuni casi, possono in realtà presentarsi come dei diritti del dipendente.

Cosa dice la giurisprudenza riguardo al rispetto dei dati personali

Ad ogni individuo fanno riferimento informazioni e dati personali che non possono essere divulgati senza il suo consenso. Se ciò avvenisse si potrebbe quindi configurare la violazione di tale diritto e la persona i cui dati sono stati divulgati in modo illecito potrà rivalersi nelle sedi più opportune.

Vediamo a proposito quali sono le categorie di dati personali a cui si fa generalmente riferimento:

  • I dati comuni sono le generalità ovvero il nome e il cognome, il codice fiscale (e un’eventuale partita Iva), il numero di telefono, la carta d’identità, l’indirizzo di posta elettronica e un’eventuale patente;
  • I dati sensibili sono quelli riferiti alla religione, all’etnia, alle posizioni politiche, all’appartenenza ad un’associazione o a un sindacato;
  • I dati semisensibili sono le informazioni riferite a particolari situazioni finanziare dell’individuo;
  • I dati giudiziari sono quelli che si riferiscono a eventuali cause legali ancora aperte, da un punto di vista penale oppure amministrativo;

Registrare un collega sul posto di lavoro è consentito?

Si prenda ora come riferimento la situazione in cui un lavoratore decida di riprendere con una telecamera o con il proprio smartphone l’operato di un altro compagno di ufficio. In riferimento a questo scenario la Cassazione si è espressa in diverse occasioni negli ultimi anni.

In passato, la Corte suprema aveva dichiarato che non era consentito ad un lavoratore registrare datore di lavoro e colleghi, visto che questo tipo di atteggiamento avrebbe costituito una violazione delle regole di riservatezza sul posto di lavoro che avrebbe potuto portare al licenziamento.

Questo tipo di approccio, tuttavia, presentava un grosso difetto. In un contesto normativo simile un lavoratore non sarebbe mai stato in grado di presentare delle prove tangibili rispetto a determinati tipi di abusi subiti all’interno dell’azienda, come le violenze sessuali, le violenze fisiche, verbali e psicologiche, le vessazioni o le minacce. Con il passare del tempo, dunque, ci si è resi conto che sarebbe stato necessario adattare la normativa a determinati tipi di esigenze.

Quando diventa necessario far valere le proprie istanze in sede civile o penale è dunque attualmente possibile filmare i propri colleghi e utilizzare il materiale ricavato dalle registrazioni per denunciare, per esempio, fenomeni di mobbing o per dimostrare di avere svolto mansioni in nero, senza un regolare contratto di assunzione.

Le registrazioni possono inoltre rivelarsi molto utili (e, di conseguenza, lecite) quando si tratta di accertare la minaccia di un licenziamento nel caso ci si rifiutasse di svolgere la stessa mansione per uno stipendio più basso, per non parlare ovviamente delle molestie fisiche. La presenza di un video, registrato anche di nascosto, rappresenta dunque ad oggi l’unico strumento al quale ci si può appigliare per far valere le proprie ragioni.

In un simile contesto, emerge dunque come il diritto alla difesa (stabilito dall’articolo 24 della nostra Costituzione) prevalga su quello alla privacy.

Tra le altre cose, la Cassazione ha specificato con una recente sentenza che per la registrazione delle prove non serve in alcun modo il consenso dell’interessato: tuttavia, è importante sottolineare come l’utilizzo di tali file video non possa andare oltre le finalità della tesi difensiva e che si debba limitare esclusivamente al legittimo esercizio di un diritto. Un altro importante dettaglio da non sottovalutare è il fatto che il file creato a scopo di prova non dovrebbe in alcun modo essere diffuso o inoltrato per vie che non siano quelle giudiziarie. L’unico destinatario di questa “prova” dovrebbe quindi essere il giudice o l’autorità che si occuperà di analizzare il caso alla ricerca di eventuali responsabilità terze.

Questi principi valgono chiaramente non soltanto per quanto riguarda le registrazioni video ma anche, eventualmente, per quelle audio e fotografiche.

I casi in cui la registrazione costituisce reato

Non vale di certo lo stesso discorso quando si fa riferimento a registrazioni non consensuali di scambi e interazioni fra colleghi non consenzienti, che siano state effettuate per motivi diversi da quelli sopracitati.

In questo caso si prefigura, al contrario, un vero e proprio illecito, il reato di interferenze illecite, che può essere punito con la reclusione in carcere da sei mesi a quattro anni. Questo principio, inoltre, vale non soltanto per i dipendenti assunti dall’azienda a tempo indeterminato ma per tutte le figure che prestano un qualsivoglia tipo di attività all’interno dell’azienda, compresi i collaboratori part-time e parasubordinati (come le persone che hanno un contratto di collaborazione).

Vale però la pena sottolineare come quanto detto finora faccia riferimento solo a comportamenti da mantenere all’interno dell’azienda. Una volta all’esterno del contesto lavorativo, i dipendenti potranno infatti continuare a fare ciò che è concesso a chiunque altro, come scattare foto e video, pedinare eccetera.

Vietato entrare nel computer di lavoro dei colleghi

Un altro scenario possibile si può presentare quando un lavoratore decide di entrare nel computer aziendale di un collega senza il suo consenso. In questo caso si può parlare di illecito allo stesso modo, anche nel caso in cui il lavoratore avesse lasciato il computer acceso e privo di credenziali di accesso.

Secondo la Cassazione, inoltre, rischia il licenziamento un lavoratore che decida volontariamente di utilizzare la password di un collega per accedere a delle informazioni che gli sarebbero altrimenti state interdette.

I pettegolezzi possono costare il posto di lavoro

Un individuo che ha avuto occasione di lavorare in un ufficio sa bene che spesso può capitare di ritrovarsi al centro di pettegolezzi e maldicenze che lo possono mettere in cattiva luce agli occhi degli altri colleghi e dei superiori. Si inseriscono tra le altre cose in questo contesto anche tutti i dettagli relativi alle condizioni di salute dei dipendenti e ad eventuali operazioni a cui si sono sottoposti o patologie in corso.

Quello che in molti non sanno è che questo tipo di atteggiamento non è consentito e che potrebbe portare a sua volta al licenziamento. La privacy degli individui, infatti, va rispettata, non soltanto per una questione di buon senso ma anche perché la circolazione di informazioni private e personali può andare ad inficiare l’efficienza aziendale.

I controlli concessi al datore di lavoro

In base allo Statuto dei lavoratori un datore di lavoro non ha il diritto di controllare i propri dipendenti a distanza tramite sistemi elettronici (per esempio tramite l’installazione di telecamere in ufficio).

Può al contrario presentarsi il caso di un lavoratore che “faccia la spia” al proprio capo rispetto ai comportamenti illeciti o poco rispettosi tenuti da un suo collega sul posto di lavoro. Il Tribunale di Firenze, da questo punto di vista, ha specificato che è nei diritti di un datore di lavoro utilizzare le testimonianze di uno dei suoi dipendenti per verificare gli illeciti commessi da altri.

La testimonianza di un collega che ha tenuto sotto controllo un altro potrà quindi essere utilizzata come prova per avviare un eventuale procedimento disciplinare a suo carico che, nei casi più gravi, potrebbe persino portare alla risoluzione del contratto del colpevole.