Le nuove speranze per alcuni tumori dell’immunoterapia oncologica

IMMUNOTERAPIA

Dall’assegnazione del premio Nobel 2018 a oggi l’immunoterapia per la cura del cancro si sta evolvendo e le possibilità di sopravvivenza aumentano. Studi recenti puntano sulla terapia combinata (chemio-immunoterapia). In futuro potrebbe bastare un semplice esame del sangue per monitorare l’efficacia del trattamento.

 

L’immunoterapia oncologica ha gettato un seme di speranza nella cura di alcune tipologie di tumore. Detta anche terapia biologica, consiste nel trattamento della malattia mediante l’attivazione o la soppressione del sistema immunitario. Per attivazione di immunoterapia s’intende il trattamento che suscita o amplifica la risposta immunitaria. Le terapie di immunodepressione riducono o sopprimono la risposta immunitaria.

Negli ultimi anni l’immunoterapia è al centro di studi da parte di ricercatori, clinici e aziende farmaceutiche, grazie anche al minor impatto degli effetti collaterali.

Quelle a base cellulare risultano più efficaci per alcuni tumori. Le cellule effettrici (quelle che producono anticorpi) immunitarie come linfociti, macrofagi, cellule dendritiche, cellule killer naturali (cellule NK), linfociti T citotossici (CTL), ecc., lavorano insieme per difendere il corpo dal cancro colpendo gli antigeni anomali espressi sulla superficie delle cellule tumorali.

Nelle terapie più tradizionali il trattamento del cancro era solito concentrarsi sull’uccisione o la rimozione di cellule tumorali attraverso la chemioterapia, la chirurgia o le radiazioni. Questi trattamenti possono essere molto efficaci e in molti casi vengono ancora utilizzati.

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A questi  si stanno via via affiancando le immunoterapie. Non a caso nel 2018 il premio Nobel per la medicina è stato assegnato a James P. Allison e Tasuku Honjo “per la loro scoperta della terapia del cancro mediante l’inibizione della regolazione immunitaria negativa”.

Dal 2018 a oggi l’immunoterapia antitumorale si è evoluta ulteriormente, anche se ancora oggetto di ricerca e sperimentazione. Ma già nel 2017 la rivista The Lancet ha pubblicato i risultati di alcuni studi controllati randomizzati su diversi tumori che hanno comportato un aumento significativo della sopravvivenza e del periodo libero da malattia. L’efficacia nel trattamento dei pazienti è aumentata del 20-30% quando l’immunoterapia a base cellulare è combinata con metodi di trattamento convenzionali. (Qui lo studio).

 

Lo studio italiano che lascia sperare ancora

Gli ultimi aggiornamenti pubblicati sulla piattaforma di riviste scientifiche BMC lasciano ben sperare. In un articolo del 12 ottobre 2022 sono state pubblicate le analisi di una ricerca per testare la sopravvivenza di pazienti sottoposti a trattamento immunoterapico con 31 tipologie di neoplasie maligne.

Lo studio è stato sostenuto in parte da Ricerca Corrente 2021 e dal Ministero della Salute italiano ed è stato redatto da esperti come Claudia Giampietri dell’Università Sapienza di Roma. Francesca Scatozza, Elena Crecca, Virginia Vigiano Benedetti e Antonio Facchiano del Laboratorio di Oncologia Molecolare, Istituto Dermopatico Dell’Immacolata, IDI-IRCCS, Roma. Pier Giorgio Natali della Task Force Mediterranea per il Controllo del Cancro (MTCC) a Roma.

La ricerca ha identificato nuovi marcatori prognostici e suggerisce opzioni di trattamento immunoterapico sinora inesplorate in un’ampia gamma di tipologie tumorali. Potrebbe così estendersi l’immunoterapia, anche combinata con cure convenzionali, per alcuni tumori finora esclusi. (Qui lo studio).

 

Quali tumori si possono curare con l’immunoterapia?

Al momento l’immunoterapia viene impiegata per il trattamento di alcuni tumori, in particolare:

  • Melanoma;
  • Tumori del polmone;
  • Tumori del rene e della vescica;
  • Linfoma di Hodgkin;
  • Alcuni tipi di tumore della mammella e del colon che esprimono particolari alterazioni biomolecolari.

Tuttavia, come dimostrano questi studi recenti, e come riportano le associazioni impegnate nella lotta contro il cancro (ad esempio, l’Aimac), l’immunoterapia è un campo in rapida espansione e sono in fase di sviluppo molti altri farmaci immunologici che entreranno a breve nella pratica clinica per molti altri tipi di tumore.

Come funziona

L’immunoterapia non è esente da effetti collaterali, ed è oggetto di studi e approfondimenti. Prima di analizzare gli effetti, bisogna comprendere il funzionamento di questo trattamento terapeutico.

L’immunoterapia si basa sul funzionamento delle cellule del sistema immunitario (in particolare i linfociti T). Queste cellule necessitano di sistemi di attivazione e spegnimento (i cosiddetti “checkpoint”) che regolano la loro attività. I tumori in genere sfruttano questo sistema a proprio vantaggio per potersi sviluppare. È proprio in questo meccanismo che interviene l’immunoterapia. Infatti, i farmaci immunologici (anti-CTLA4, anti-PD1, anti-PDL1) agiscono interferendo con questo meccanismo.

Una delle forme più antiche di immunoterapia del cancro ha previsto l’utilizzo del bacillo di Calmette-Guérin, che originariamente era il vaccino contro la tubercolosi. Questo si è rivelato utile nel trattamento del cancro alla vescica.

L’uso di anticorpi monoclonali nella terapia del cancro è stato introdotto per la prima volta con l’anticorpo anti-CD20 rituximab e poiché tali anticorpi attivano vari componenti del sistema immunitario, dovrebbero essere considerati potenzialmente immunomodulatori. Questa terapia si basa sull’estrazione dei linfociti G-CSF dal sangue e l’espansione in vitro contro un antigene tumorale prima di reintegrare le cellule con appropriate citochine stimolanti. Le cellule quindi distruggono le cellule tumorali che esprimono l’antigene.

L’immunoterapia topica utilizza, invece, una crema di potenziamento immunitario (imiquimod) che produce interferone, causando la distruzione delle verruche da parte delle cellule T killer del ricevente, cheratosi solari, carcinoma basocellulare, neoplasia vaginale intraepiteliale, carcinoma a cellule squamose, linfoma cutaneo, e melanoma maligno superficiale.

L’immunoterapia per iniezione (“intralesionale” o “intratumorale”) utilizza la parotite, la candida, il vaccino HPV o le iniezioni di antigene tricofitina per trattare le verruche (tumori indotti dall’HPV).

Il trasferimento di cellule adottive è stato testato su tumori polmonari e altri tumori, con il massimo successo ottenuto nel melanoma.

 

Gli effetti collaterali dell’immunoterapia oncologica

Gli effetti collaterali di questi farmaci sono molto diversi da quelli della chemioterapia tradizionale. Si tratta in particolare di effetti dovuti a reazioni autoimmuni dirette verso organi e tessuti.

I più comuni effetti collaterali da immunoterapia oncologica sono la colite, le eruzioni cutanee, le alterazioni della tiroide, dell’ipofisi e del surrene, la polmonite, l’epatite, la nefrite e altre alterazioni che possono interessare l’occhio, i nervi, l’encefalo. Gli effetti collaterali da farmaci immunologici devono essere gestiti il più precocemente possibile, possono richiedere l’intervento di più specialisti (gastroenterologo, pneumologo, dermatologo, infettivologo, endocrinologo, ecc.) e si contrastano con la temporanea sospensione del trattamento e l’utilizzo di cortisonici.

 

Il futuro di queste terapie

Oggi cresce l’interesse verso la chemio-immunoterapia, trattamento che prevede l’associazione di chemioterapia e immunoterapia. Essa rappresenta un’opzione terapeutica emergente nel trattamento di alcuni tumori (polmone, melanoma, rene, vescica). Il vantaggio di quest’associazione consiste nel fatto che l’effetto citotossico della chemioterapia cambia l’assetto molecolare delle cellule tumorali, facilitando in tal modo l’azione dell’immunoterapia. Di conseguenza, aumenta la possibilità che i linfociti T del sistema immunitario riconoscano e blocchino la crescita delle cellule tumorali.

La Fondazione Airc per la Ricerca sul Cancro ha pubblicato i risultati di una ricerca pubblicata su Nature Communications contenuti in un articolo dal titolo “Circulating mucosal-associated invariant T cells identify patients responding to anti-PD-1 therapy”.

Secondo lo studio, in futuro, un semplice esame del sangue potrebbe essere sufficiente per sapere in anticipo se l’immunoterapia contro il melanoma ha probabilità di successo o se è preferibile scegliere da subito un altro trattamento. Enrico Lugli, dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas, e Andrea Cossarizza, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, hanno scoperto, con i loro gruppi di ricerca, che i livelli misurati nel sangue di una popolazione di cellule immunitarie chiamate MAIT possono aiutare a prevedere le probabilità di risposta all’immunoterapia nei pazienti con melanoma in stadio avanzato. MAIT è l’acronimo dell’inglese: mucosal-associated invariant T.

L’avvento dei cosiddetti inibitori dei checkpoint immunitari, farmaci immunoterapici capaci di rimuovere i blocchi che impediscono al sistema immunitario di combattere il cancro, ha consentito grandi progressi nella lotta a diverse neoplasie, in particolare contro il melanoma. Tuttavia non tutti i pazienti rispondono ai trattamenti allo stesso modo: in alcuni si osserva un’efficacia elevatissima, in altri la risposta è molto debole. I ricercatori in tutto il mondo stanno cercando di comprendere da cosa possano derivare queste differenze.

“Nel nostro caso abbiamo studiato 28 pazienti con melanoma avanzato che erano stati trattati con inibitori dei checkpoint immunitari, cercando le differenze tra quelli che avevano risposto in modo migliore e più duraturo al trattamento e quelli in cui i farmaci mostravano una minore efficacia” spiega Enrico Lugli alla Fondazione Airc. “Abbiamo scoperto che i pazienti che rispondevano meglio al trattamento avevano livelli più alti di linfociti T di tipo MAIT”.

Le cellule MAIT sono una particolare famiglia di cellule T e devono il nome al fatto di essere state individuate inizialmente nei tessuti delle mucose, come quelli del tratto intestinale e dei polmoni. In realtà sono presenti anche nel sangue e in diversi tessuti e organi, come il fegato. Agiscono come prima linea di difesa contro le infezioni, ma possono anche contribuire a malattie autoimmuni e altre sempre mediate dal sistema immunitario.

“Analizzando i nostri dati, e combinandoli con i risultati di altri studi pubblicati, a disposizione dalla comunità scientifica, abbiamo scoperto che le differenze nei livelli di MAIT erano precedenti all’inizio del trattamento. Questo ci fa pensare che siano efficaci come biomarcatori per sapere in anticipo chi con maggiore probabilità risponderà positivamente alla terapia”, osserva il ricercatore Lugli.

Al momento non è chiaro in che modo le cellule MAIT condizionino la risposta all’immunoterapia. Potrebbero svolgere un ruolo diretto nel contrastare il tumore, agire in modo sinergico con i farmaci o essere coinvolti in altri meccanismi ancora ignoti. Gli esperti spiegano che occorreranno ulteriori ricerche per capire questo aspetto e anche per raccogliere maggiori informazioni sul loro ruolo come marcatori di risposta al trattamento. Se questa capacità fosse confermata, sarebbe possibile disporre di un test semplice per scegliere per ciascun malato il trattamento con maggiori probabilità di successo.

Gran parte di questi studi prosegue grazie ai sacrifici degli esperti e ricercatori. Per questo, prima ancora della prevenzione, è importante il sostegno incondizionato alla ricerca contro il cancro. Il miglior investimento per il benessere del futuro.