Allevamenti intensivi, “Cosi siamo riusciti a bloccare la porcialaia con 10mila suini”

PESTE SUINA

A Schivenoglia, in provincia di Mantova, un piccolo comitato ha vinto un referendum contro l’apertura di un nuovo maxi-allevamento del gruppo Cascone. Il sostegno di Greenpeace: “Bene, in Pianura Padana gli animali allevati superano il numero degli abitanti”

Se in Olanda il governo propone l’abbattimento di 30 milioni di bovini per ridurre l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, in Pianura Padana il numero degli animali allevati ha superato da tempo il numero dei residenti. Una tendenza irreversibile? Di sicuro, come ricorda Greenpeace, ci sono segnali importanti di cambiamento.

Emblematico il caso di Schivenoglia, in provincia di Mantova, un piccolo comitato ha vinto un referendum contro l’apertura di un nuovo maxi-allevamento del gruppo Cascone e da circa due anni sta bloccando l’ampliamento e l’avvio di un altro allevamento di oltre 4.000 suini, sempre di proprietà dello stesso gruppo.

Scrive Greenpeace: “Gli allevamenti intensivi, oltre un certo numero di animali allevati, sono considerati “attività insalubri di prima classe”, proprio a causa dei loro impatti, e per questo sottoposti a procedure di valutazione e monitoraggio. In questo caso, superando i 3.000 suini, la procedura avrebbe dovuto essere una vera e propria Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), dalla quale però il progetto del gruppo Cascone è stato esentato, seguendo quindi una procedura semplificata”.

Un precedente pericoloso, denuncia l’associazione eco-pacifista, che non ha preso in considerazione il totale degli animali allevati nel nuovo impianto, bensì la differenza rispetto a precedenti autorizzazioni ottenute per lo stesso sito, talmente datate da essere precedenti alle attuali normative in merito di valutazione ambientale, comprese le distanze di legge che questo tipo di allevamenti devono avere rispetto alle aree abitate.

“Un piccolo artifizio matematico – rincara la dose Greenpeace – che però non cambia il risultato finale: gli impatti ambientali e sanitari sul territorio sono dovuti proprio al totale, non solo dell’allevamento in questione, ma anche degli altri presenti sul territorio, le cui emissioni inquinanti vanno valutate complessivamente… o meglio, andrebbero!”.

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Il comitato di Schivenoglia per due anni ha dato battaglia, sottolineando, ricorda in una nota Greenpeace, ogni mancanza, ogni inesattezza, ogni “leggerezza” emersa dai pareri delle autorità locali, apparse più preoccupate di difendere il proprio operato, piuttosto che di tutelare la salute dei cittadini e del territorio. Il risultato è una Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), che di fatto dà il via libera a portare migliaia di suini nei capannoni costruiti nel frattempo dal gruppo Cascone grazie all’autorizzazione del Comune, nonostante questa fosse in contrasto con il PGT (Piano di Governo del Territorio) vigente e priva del parere di conformità al Regolamento locale d’Igiene. Una AIA basata su valutazioni parziali, come quella numerica già illustrata, ma anche su affermazioni palesemente false, come quella che ha portato a escludere dalla valutazione degli inquinanti le PM2,5 (le più piccole e pericolose tra le polveri fini), dato che “il PM2,5 è scarsamente presente nelle emissioni degli allevamenti zootecnici”, come si afferma nella relazione tecnica presentata dalla ditta.

Polveri sottili e ammoniaca: salute a rischio

Desta forte preoccupazione, prosegue Greenpeace, che tali affermazioni siano state prese per buone da autorità di controllo come le sezioni mantovane di ARPA (Agenzia Regionale Protezione Ambiente) e ATS (Agenzia di Tutela della Salute), che non possono non conoscere tutti gli studi che dimostrano come sia proprio l’ammoniaca originata dagli allevamenti intensivi la seconda causa di formazione delle polveri fini in Italia, in particolare proprio del PM2,5, e come questo sia pericoloso per la salute umana, data la capacità di penetrare più profondamente nell’organismo per le piccolissime dimensioni.

Un contributo che, secondo ARPA Lombardia, è ancora più significativo nelle zone e nei periodi in cui si concentrano le attività zootecniche, come lo spandimento sui campi dei liquami derivanti dagli allevamenti, altra “fase” del progetto che non è stata presa in considerazione nella valutazione degli impatti, pur essendo una di quelle che origina maggiori emissioni di ammoniaca e polveri fini. Non a caso in altre province e regioni tali parametri sono stati considerati in procedimenti simili e anche in questo caso la stessa ATS Val Padana ne aveva formalmente richiesto la valutazione, salvo poi rilasciare un parere positivo nonostante la mancata risposta su questo importante punto.

Una “leggerezza” particolarmente grave, soprattutto in un comune in cui la concentrazione di PM10 supera il valore limite giornaliero rispetto a quanto previsto dalla normativa e dove la concentrazione delle PM2,5 è di quattro volte superiore alla soglia indicata nelle linee guida dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) sulla qualità dell’aria. I monitoraggi delle stesse autorità sanitarie destano infatti più di una preoccupazione proprio per le patologie legate all’inquinamento atmosferico, che andrebbe quindi ridotto drasticamente, e non aumentato come prevede la stessa relazione presentata dai consulenti della ditta Cascone, per quanto ne sottostimi l’impatto. È dunque particolarmente grave che gli enti preposti accettino e autorizzino un aumento di parametri inquinanti in un’area già sotto pressione, senza aver inserito nella valutazione i cosiddetti valori “di fondo ambientale”, vale a dire i parametri che descrivono il contesto ambientale a cui rapportare gli impatti del progetto proprio per poterne valutare i rischi per la salute dell’ambiente e delle persone.

“Ridurre le emissioni degli allevamenti”

La drastica riduzione delle emissioni nazionali di ammoniaca, alle quali gli allevamenti intensivi contribuiscono per circa due terzi del totale e che sono all’origine dell’inquinamento locale di acqua, aria e suolo, è un impegno che l’Italia è chiamata a rispettare in tempi brevi da una specifica Direttiva europea (2016/2284), citata anche nella risposta che la Commissione ha fornito a un’interrogazione presentata sul caso specifico di Schivenoglia.

“È evidente – conclude Greenpeace –  come il caso di Schivenoglia sia emblematico, come lo sono tanti altri casi di piccoli comitati che si oppongono agli allevamenti intensivi, spesso senza nessun sostegno e per i quali Greenpeace ha realizzato un kit di attivazione contro gli allevamenti intensivi, che racchiude informazioni e consigli”.