“CO2 interamente compensata“, “Brik eco-compatibile”, “-30% di plastica“, “100% riciclabile“, “Aiuta l’ambiente”. Leggendo questi claim ambientali in etichetta la domanda naturalmente sorge spontanea: quali sono le prove? Qualcuno le richiede preventivamente? Il consumatore ha gli strumenti necessari per accertare la fondatezza di queste dichiarazioni? Ed esiste una normativa che regolamenta questo tipo di comunicazioni? La risposta è sempre un no, perché, a differenza dei claim nutrizionali (“Senza zuccheri aggiunti”, “Fonte di fibra” e via elencando), che devono rispettare i dettami del Regolamento 1924/2006 e devono superare il vaglio scientifico dell’Efsa, sulle dichiarazioni “green” vige il Far West: nessun obbligo probatorio preventivo, nessun controllo ex-post (ricorsi giudiziari e giurì pubblicitari a parte ai quali però occorre ricorrere). Per cui se stiamo bevendo da una bottiglia “100% riciclata” possiamo solo fidarci di quello che dichiara… l’acquaiuolo.
Nel nuovo numero in edicola (acquista qui la copia digitale) abbiamo analizzato insieme a degli esperti i green claim sulle confezioni per cercare di capire quando e quanto possiamo fidarci delle auto-dichiarazioni dei produttori, scoprendo come è facile varcare il sottile confine del greenwashing.
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Il controverso mercato della compensazione del carbonio
Uno degli impegni principali da parte delle aziende per ridurre l’impatto ambientale del packaging sono i progetti di ri-forestazione ovvero di compensazione della CO2 impiegata nel processo produttivo. Un vero e proprio “mercato controverso” come emerge dall’ultimo rapporto del NewClimate Institute che ha esaminato 25 aziende globali, tra cui Nestlé e Unilever, e ha concluso che i loro impegni sul clima per lo più mancano di integrità, ovvero sono accusati di fare in gran parte greenwashing sui loro impegni ambientali. Gran parte di ciò è dovuto all’uso della compensazione volontaria del carbonio, in cui le aziende possono compensare le proprie emissioni acquistando crediti da progetti che riducono o evitano il rilascio di gas che riscaldano il clima altrove, come piantagioni di alberi di massa o fattorie solari.
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Molto critica è Greenpeace: gli alberi possono impiegare 20 anni per crescere mentre le emissioni si verificano oggi. C’è anche il timore che la compensazione allevi la pressione sull cambiamento del processo produttivo per affrontare effettivamente le emissioni prodotte nella catena alimentare.
L’abbaglio delle certificazioni
I messaggi legati alla sostenibilità sono la nuova leva per sedurre il consumatore, il quale ha sempre più maturato una consapevolezza ambientalista nelle scelte d’acquisto. Le vendite legate ai prodotti “amici dell’ambiente”, secondo gli ultimi dati Nielsen, ammonanto a oltre 11,5 miliardi di euro.
Purtroppo però non è tutto verde il “green” che viene dipinto sulle confezioni e di fronte agli scaffali del supermercato si rischia troppo facilmente di finire in trappola. “Sono due i vulnus: non c’è l’obbligo di presentare le prove scientifiche di quello che si afferma e non esiste un organo di controllo che possa intervenire nel caso in cui il claim sia ingannevole”. Elena Stoppioni è la presidente di Save the Planet, l’associazione in prima linea nello smascherare i falsi “green claim”. La sentenza “storica” del Tribunale di Gorizia contro il greenwashing è scaturita proprio dal monitoraggio dell’organizzazione: “Sul nostro sito abbiamo creato una community nella quale gli utenti possono segnalarci le anomalie sui claim ambientali. Una commissione valuta poi la fondatezza di un possibile ricorso e, nel caso sussistano le condizioni, procediamo con i nostri legali.
Qual è lo stato dell’arte giuridica in questo settore? “Non esiste una regolamentazione ad hoc – aggiunge la Stoppioni – ma è pur vero che comincia a esserci un po’ di giurisprudenza e l’articolo 6 della direttiva 29/2005 stabilisce che i green claim non possono basarsi su informazioni false, non possono ingannare il consumatore anche se le informazioni sono corrette e che il messaggio non può essere generico nelle affermazioni. Di fatto un po’ poco vista la mole di citazioni, slogan e pubblicità che strizzano l’occhio ai temi ambientali e al fatturato che muovono i prodotti così presentati. Per questo è necessario avere un regolamento europeo e meglio ancora servirebbe una normativa nazionale per decreto: bisogna al più presto bandire il greenwashing”.
A mancare non sono solo le norme ma anche un organo di controllo capace di intervenire dopo: “In Francia l’Ademe, l’Agenzia per la transizione ecologica, ogni anno – aggiunge la presidente di Save the Planet – valuta i rapporti di sostenibilità delle aziende ad esempio rispetto alla riduzione di CO2 che indicano di aver raggiunto. E questo serve a evitare che gli impegni presi restino solo sulla carta”.
Sulle confezioni molto spesso compaiono loghi, marchi e rimandi a certificazioni, processi di produzioni, brevetti che dovrebbero rappresentare una garanzia in più per il consumatore. E così?
La Stoppioni è lapidaria: “Cominciamo con il dire che non c’è nessun ente di certificazioni riconosciuto da Accredia in Italia. L’unico che mi risulti è ReMade per quanto riguarda la riciclabilità. Dopodiché occorre far chiarezza. Il marchio Fsc è un protocollo di filiera ovvero assicura che il legno proviene dalla gestione responsabile di foreste e piantagioni. Mater-Bi non è una certificazione ma un brevetto della bioplastica di Novamont”. Così come il riferimento al portale CleanRight.eu, diffusa nei detersivi, è semplicemente il riferimento a un’iniziativa dell’industria dei detergenti che fornisce ai consumatori informazioni sulle “buone pratiche di pulizia domestica”.
Il mercato dei crediti di carbonio
Molti claim fanno riferimento al taglio dell’anidride carbonica avvertendo il consumatore che le “Emissioni di CO2 equivalenti sono completamente compensate”. Cosa significa? Ci aiuta ancora la presidente di Save the Planet: “Semplicemente che il produttore ha acquistato crediti di carbonio. L’azienda ha valutato la propria carbon footprint (l’impronta carbonica, quanta CO2 ha emesso per produrre quell’imballaggio, ndr) e ha acquistato delle quote per progetti di salvaguardia ambientale ad esempio di rimboschimento in aree deforestate”. Quanto valgono sul mercato questi crediti?
Diciamo subito che non è prevista una quota stabilita ma si tratta di crediti negoziati sul mercato. “Sotto un euro per tonnellata di anidride carbonica equivalente sono degli imbrogli. Nelle nostre consulenze alle aziende che vogliono avviare un piano di transizione ecologica, non consideriamo crediti sotto i 5 euro. Diciamo che i progetti che prevedono 20 euro a tonnellata sono seri”.
“Chi controlla lo stato dei rimboschimenti?”
L’altra faccia della medaglia è il monitoraggio di questi progetti di rimboschimento: “Un vero punto debole, in molti casi non è facile neppure ricevere informazioni sullo stato di avanzamento della riforestazioni, in altri per il semplice consumatore è letteralmente impossibile sapere dove sono stati investiti crediti di carbonio e per fare cosa”.
Naturalmente ci sono aziende serie e progetti altrettanto validi. Purtroppo però esistono altrettante zone d’ombra che rischiano di “inquinare” l’impegno per una vera sostenibilità. “L’ideale per le aziende è quello di convertire la produzione: usare energia rinnovabile e compensare con i crediti CO2 quel che resta”. Della serie non si può mettere una “pezza” se poi il buco resta.
“Un altro ambito dove occorre far chiarezza – prosegue la nostra interlocutrice – è quella della riciclabilità degli imballaggi. È bene sapere che non tutta la plastica è riciclabile, mentre tutto il Pet può essere riciclato ma affinché ridiventi una nuova bottiglia occorre che il percorso di raccolta sia selettivo e dedicato”. In altre parole la materia prima “sporca” o che finisce in flussi di raccolta non omogenei è difficile, se non impossibile, da riutilizzare. “Si può anche aver utilizzato il 30% di plastica in meno – conclude l’esperta – ma se poi quell’imballaggio non si può avviare a un percorso di riciclo specifico oppure se il packaging è composto da diversi materiali che non possono essere separati, è chiaro che non si crea economia circolare”.
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