Ecco da dove arrivano gli alimenti irradiati che finiscono nei nostri piatti

ALIMENTI IRRADIATI

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Una sorta di miracolo, fondamentale per evitare tossinfezioni pericolose per il consumatore, garantire alimenti incontaminati e limitare gli onerosi sprechi di cibo.

Un modo pericoloso di trattare gli alimenti senza la necessaria cura igienica, nascondendo l’inevitabile perdita di freschezza, per di più con l’aiuto di una tecnica che fa sempre paura, la radioattività che evoca disastri come quello di Chernobyl.

Gli alimenti irradiati attraverso radiazioni ionizzanti derivanti da generatori di fasci di elettroni o da sorgenti radioattive, è uno di quei temi in cui si scontrano paure e certezze, sospetti e tranquillizzanti prese di posizione.

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Il procedimento può essere impiegato per ridurre la contaminazione microbica di un alimento, eliminare germi patogeni, distruggere infestazioni da insetti e parassiti, prevenire la germinazione in vegetali. Il trattamento è permesso in Europa ed è regolato, in Italia, dal decreto legislativo 94 del 30 gennaio 2001 che ne limita l’impiego solo su una lista positiva di alimenti, tra cui erbe secche, spezie, patate, cipolle e aglio.

La dose massima di radioattività a cui possono essere sottoposti questi vegetali è di 10 kGy. Per qualunque prodotto sottoposto a irraggiamento si deve specificare il trattamento.

Alimenti irradiati, chi li ha visti?

Accanto alla denominazione di vendita, per legge dovrebbe comparire l’indicazione “irradiato” o “trattato con radiazioni ionizzanti”. Quando è solo una componente dell’alimento a essere stata sottoposta a radiazioni, la dicitura segue il nome dell’ingrediente; nel caso degli alimenti sfusi, deve figurare per mezzo di un cartello esposto sulla cassetta.

Eppure a guardare tra gli scaffali dei negozi italiani, di queste etichette non c’è neppure l’ombra.

Eppure, anche se meno che in passato, l’irradiazione continua a essere una pratica costante nell’Unione europea. Secondo l’ultimo rapporto comunitario che copre 2018/2019 a subirla maggiormente sono le cosce di rana che hanno costituito  i due terzi dei prodotti irradiati in Europa. Ma chi non ama questo cibo non può dirsi tranquillo, almeno a leggere i dati del rapporto: il pollame (il 20,6% dei prodotti irradiati) e le erbe aromatiche essiccate, le spezie e le verdure condite (al 14%).

I raggi amati dal Belgio e invisi all’Italia

Le norme sugli alimenti e gli ingredienti autorizzati per l’irradiazione nell’UE non sono armonizzate. Alcuni paesi lo consentono per frutta e verdura, compresi gli ortaggi a radice; cereali, fiocchi di cereali e farina di riso; spezie e condimenti; pesce e crostacei; carni fresche, pollame e cosce di rana; e camembert di latte crudo.

Alla fine di dicembre 2019, c’erano 24 impianti di irradiazione autorizzati in 14 paesi: la Francia ne aveva cinque, la Germania quattro, la Bulgaria, i Paesi Bassi e la Spagna ne avevano due, mentre ce n’era uno ciascuno in Belgio, Repubblica Ceca, Croazia, Estonia, Italia , Ungheria, Polonia, Romania e Regno Unito. Tuttavia, Bulgaria, Italia, Romania e Regno Unito non hanno irradiato alcun prodotto alimentare nel periodo dal 2018 al 2019. E proprio l’Italia (subito dopo la Germania) è stata la nazione che ha fatto più controlli per scoprire i casi in cui il trattamento non era segnalato in etichetta.

La maggior parte dei prodotti analizzati erano erbe e spezie e cereali, semi, ortaggi, frutta e relativi prodotti. Sono stati controllati anche gli integratori alimentari, le zuppe e le salse.

La storia lunga dell’irraggiamento tra “stop and go”

Quella dell’irraggiamento degli alimenti è una storia lunga. I suoi primi passi, tra il 1945 e il 1965, vengono guardati con molto entusiasmo dalle industrie, convinte che si tratti del modo migliore per conservare a lungo gli alimenti.  Non la pensano allo stesso modo, però, i consumatori e dunque la tecnica subisce un lungo stop proprio per l’avversione pubblica. Nel 1981 l’irraggiamento torna al centro della scena grazie a uno studio congiunto tra Fao (l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e la lotta alla fame), Iaea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) e Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità).

La ricerca dei tre istituti suscita scalpore rivelando che l’uso di radiazioni non presenta problemi di natura tossicologica, nutrizionale e microbiologica fino a una dose di radiazioni di 10 kGy. Tre anni dopo, nel 1984, le tre autorità emanano gli standard guida per il trattamento di irradiazione e per il controllo dei cibi. È il via che molti aspettavano: in pochi anni la tecnica si è diffusa in molte nazioni e viene rapidamente adottata e utilizzata in 41 paesi e su oltre 60 prodotti alimentari.

Dalla Cina a Israele, dagli Usa alla Nuova Zelanda, all’Unione europea, gli impianti nella maggior parte dei casi utilizzano i raggi gamma prodotti dal cobalto 60 o dal cesio 137 per “scottare” i cibi attraverso la formazione di ioni liberi (da qui la denominazione di radiazione ionizzante). Ultima arrivata, il Canada, autorizza addirittura l’irradiazione della carne macinata.

Si ottiene così una sterilizzazione parziale che per alcuni cibi equivale a una pastorizzazione, cioè all’uccisione dei batteri patogeni per l’uomo; in altri casi si hanno effetti sulla “vitalità” dell’alimento, come nel caso delle patate, dell’aglio o delle cipolle, delle quali inibisce la germogliazione.

In tutti i casi il fine è prevenire il deterioramento dell’alimento e ridurre eventuali contaminazioni microbiche.

Quali rischi?

Non c’è da temere che i cibi sottoposti a irraggiamento diventino radioattivi. Ma i problemi sono comunque numerosi.

  • L’effetto delle radiazioni ionizzanti sulla materia vivente è solo parzialmente noto. Si sa che vengono prodotte sostanze pericolose, come ad esempio i radicali liberi dai grassi, che possono avere effetti dannosi sull’organismo. Gli esperti “pro” irraggiamento hanno sempre detto che si tratta di piccole quantità, ma i radicali liberi possono creare danni al nucleo delle cellule anche in minime dosi. Se la normale alimentazione ne è ricca, risulteranno maggiori le probabilità di un danno (leggi: malattie degenerative come i tumori).
  • Le radiazioni ionizzanti provocano la distruzione di percentuali importanti di vitamine, in particolare la E e la C.
  • A livello di produzione, esiste il problema dello smaltimento delle scorie radioattive.
  • Per molti alimenti non è possibile attuare una sterilizzazione spinta, perché provocherebbe diversi effetti collaterali. Per molti cibi sottoposti a irraggiamento, quindi, restano necessarie le precauzioni nella successiva conservazione.
  • È una tecnologia che può essere utilizzata a scopo fraudolento, perché permette di “bonificare” cibi non commestibili (come carni infette e granaglie infestate da parassiti).
  • L’irraggiamento è una tecnologia costosa e non indispensabile. Gli stessi risultati di conservabilità si possono ottenere con metodi tradizionali di conservazione e con maggiore attenzione alla cura dell’igiene nella produzione degli alimenti.