Una domanda che cresce e una produzione che non riesce a stare al suo passo. E’ la storia del peperoncino italiano che non riesce a rinunciare alla sudditanza da mercati extra-Ue (2mila tonnellate annue da Cina, Egitto, Turchia). Una dipendenza che mette a rischio la sicurezza di uno dei simboli gastronomici del nostro paese. A scattare la fotografia del mercato del peperoncino made in Italy è la Cia-Agricoltori Italiani secondo cui il problema maggiore di questa coltivazione, solo in rari casi specializzata, è legato a prezzi non concorrenziali rispetto a quelli dei Paesi da cui viene importato. Se in Italia, da 10 kg di peperoncino fresco si ottiene 1 kg di prodotto essiccato, macinato in polvere pura al 100% e commerciabile a 15 euro, l’analogo prodotto dalla Cina ha un costo di soli 3 euro, ed è il risultato di tecniche di raccolta e trasformazione molto grossolane, con le quali la piantina viene interamente triturata –compresi picciolo, foglie, radici-, con pochissime garanzie di qualità e requisiti fitosanitari ben diversi da quelli conformi ai regolamenti europei.
Il rischio sofisticazione (e il caso Sudan 1)
La polvere stessa è per sua natura facilmente sofisticabile. Tutti ricordano la storia del Sudan 1, un colorante utilizzato, normalmente, per tingere solventi, oli minerali, petrolio, cere per pavimenti e scarpe e vietato in paesi come l’Inghilterra fin dal 1995 a causa della sua azione cancerogena e genotossica. Era l’estate 2003 quando, grazie agli enti sanitari francesi, venne scoperta oltralpe, una diffusa contaminazione di prodotti alimentari contenenti peperoncino di origine inglese. Un’allarme che in breve tempo arrivò anche nel nostro paese. Uno scandalo che costrinse – per fortuna, visti i silenzi dell’allora ministro della Salute anche di fronte ai risultati dei nostri test che inchiodavano alcune aziende –  l’Europa ad agire immediatamente emendano una decisione che di fatto stabiliva l’impossibilità di importare nei paesi comunitari né peperoncino né prodotti a base di peperoncino privi di un certificato che assicuri l’assenza di Sudan I, II, III, IV.
Oltre al Sudan 1, nei peperoncini importati il rischio pesticidi è molto elevato: qualche anno fa in Svizzera l’Ufficio federale della sicurezza alimentare e di veterinaria lanciò una vera e propria allerta mettendo in guardia i consumatori: le verdure provenienti dall’Asia conterrebbero un vero cocktail di veleni.
La soluzione? Valorizzare il prodotto
L’elevato costo di produzione del peperoncino in Italia, sia fresco sia trasformato in polvere, è dato, soprattutto, dall’incidenza della manodopera e da procedure di trasformazione altamente professionali, compresi macchinari per l’ozono per una perfetta essiccazione. Secondo Cia, occorre, dunque, una maggiore valorizzazione e tutela del prodotto che, grazie al microclima e alle caratteristiche orografiche del terreno, trova nel nostro Paese l’ambiente ideale per la sua coltivazione. La creazione di denominazioni di origine territoriale darebbe al consumatore garanzia di qualità , tracciabilità e salubrità e un valore aggiunto adeguato alla parte produttiva, incentivata ad aumentarne la coltivazione estensiva, localizzata perlopiù in Calabria (100 ettari, con il 25% della produzione), Basilicata, Campania, Lazio e Abruzzo. Si verrebbe, così, incontro alla domanda sempre crescente dell’industria alimentare, che produce sughi e salami piccanti, senza dimenticare l’export, con la richiesta per salse e condimenti delle grandi aziende del food, fra le quali spiccano quelle dei Paesi Bassi, che rappresentano attualmente la destinazione del 50% della produzione di peperoncino della Calabria.
Il sistema produttivo italiano, oltre a certificazioni di qualità , avrebbe, bisogno anche di un ammodernamento delle tecniche di lavorazione per abbattere i costi produttivi, a partire dalla migliorazione varietale delle cultivar, per ottenere frutti concentrati sulla parte superiore ed esterna della pianta, più facilmente distaccabili nelle operazioni di raccolta con macchine agevolatrici.
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