“Io compro solo prodotti agricoli che vengono da fuori della zona rossa. Non è semplicemente triste, distrugge il cuore, perché sai che vai ad attaccare le famiglie che sono oggi con me, che hanno aziende agricoli”. Sono le parole di Michela Piccoli, una delle “mamme No Pfas” che hanno organizzato un presidio sotto al ministero dell’Ambiente per chiedere limiti stringenti sul rilascio di sostanze perfluoro alchiliche, interferenti endocrini, da parte degli scarichi industriali. “Del danno economico per l’agricoltura e l’allevamento non ne parla nessuno, parlano solo dei posti di lavoro delle aziende – spiega Piccoli – La Miteni (l’azienda di Trissino, nel vicentino, che per decenni ha inquinato le falde acquifere della zona tra Vicenza, Padova e Verona, ndr) aveva 100 operai, allora mettiamoli sul piatto della bilancia di tutte le aziende agricole che stanno subendo un danno economico”. Il 6 ottobre le mamme No Pfas sono state ricevute al ministero dell’Ambiente dal capo della segreteria tecnica e da due avvocati. Gli interlocutori si sono resi disponibili a rivedere la proposta di legge in discussione a partire dai punti proposti dal comitato: la motivazione tecnica e scientifica dei limiti, la mancanza della sommatoria di tutti i pfas, il motivo della scelta di 14 pfas che escludono per esempio l’Adv7800 ben presente nelle acque di Spinetta Marengo e infine perché manca il conteggio degli isomeri, sostanze simili ma con disposizione diversa dai pfas.
L’incontro al ministero
“L’incontro è andato bene – dice al Salvagente Michela Piccoli – Abbiamo spiegato le motivazioni per le quali contestiamo la proposta di legge sulle soglie. Loro hanno accolto la nostra richiesta di metterci a confronto con il ministero, l’Ispra, l’Istituto superiore di sanità e la Regione Veneto, che da quattro anni sta portando avanti la battaglia per mettere i limiti zero agli scarichi industriali”. Già nella zona rossa, infatti, è stato fissato lo zero tecnico di presenza di Pfas nelle acque potabili,soglia che la regione può abbassare autonomamente.
I limiti da fissare
Il collegato ambientale in discussione, invece riguardai limiti allo scarico delle aziende, di competenza del ministero. Michela Piccoli spiega: “Ci faranno far parte dei tavoli tecnici sulla fissazione dei limiti. Noi vogliamo confrontarci in primis con Confindustria, perché le mamme non vogliono la chiusura delle aziende, ma vogliono che rispettino zero emissioni di Pfas nell’ambiente. Bisogna trovare insieme delle soluzioni, che potrebbero essere il circuito chiuso, facendo rientrare nei processi di lavorazione le sostanze eliminate, e anche altre tecnologie utilizzate da altri paesi europei. Ovviamente questi queste tecnologie costano, ma noi diciamo che prima di pensare ad altro, come costruire strade, bisogna occuparsi della salute dei cittadini”. Per il comitato No Pfas, le aziende che scaricano a monte dei corsi idrici, utilizzati per uso idro-potabile, non devono rilasciare Pfas.
Le aziende agricole in crisi
Le richieste sono nette perché in questi anni l’inquinamento in quel triangolo veneto le abitudini sono state stravolte, a partire dai danni allo sviluppo per tanti bambini, e non sono ancora tornate come prima: “Io sono di Lonigo, in provincia di Vicenza – racconta Michela Piccoli – È il luogo dove partono tutti gli acquedotti dei 35 comuni che vengono forniti nell’area rossa. Abbiamo ricominciato a usare l’acqua del rubinetto perché al momento c’è lo zero tecnico di presenza di Pfas. Il costo di filtrazione è elevatissimo, viene pagato dai cittadini nelle bollette”. I prodotti agricoli sono il grosso problema. Per quanto riguarda l’irrigo non ci sono al momento soluzioni, perché i contadini prelevano l’acqua dai pozzi, dai fiumi, che sono inquinati. Gli allevamenti hanno l’obbligo di dotarsi di questi filtri, e se li devono pagare. “Per colpa di una singola azienda è stata inquinata la seconda ricarica degli acquiferi (la zona dove nascono tutte le falde dell’area), più grande d’Europa. È il disastro ambientale più grande che sia accaduto in Europa”.
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