La superiorità del burro straniero? Questione di scelte

“I digiuni dovrebbero essere una questione di libertà, e tutte le questioni riguardanti il cibo lasciate libere, come recitano i Vangeli (Matteo 15:11). Perché a Roma loro stessi ridono dei digiuni, e costringono noi stranieri a mangiare olio con cui loro non si ingrasserebbero gli stivali, e poi ci vendono la libertà di mangiare il burro e tutto il resto”. Anno 1520. Martin Lutero, padre spirituale della riforma protestante, in un discorso ai nobili tedeschi si scaglia contro il traffico delle indulgenze e prende, non a caso, il burro come esempio. Proibito durante i periodi di Quaresima, nel tardo Medioevo il burro divenne oggetto di mercimonio: pagando, la Chiesa dava a chi non poteva resistere, il beneficio di poter mangiare il panetto anche quando non si poteva. In generale, i più inclini a pagare erano gli abitanti del Nord Europa perché al Meridione si riusciva facilmente a sopperire con l’olio. Il differente approccio nell’uso del burro tra Nord e Sud Europa era già evidente e con il tempo è diventata una differenza anche nel modo di produzione.

L’ingrediente principale del burro è la panna, o crema di latte come la chiamano i tecnici mentre la fase produttiva più caratteristica è la zangolatura: durante questo passaggio si passa da un’emulsione di grasso in acqua a un’emulsione di acqua nella fase grassa. E fin qui siamo nei passaggi comuni a qualunque produzione. Ma c’è panna e panna. Ed è proprio questo che fa la differenza tra il burro prodotto in Nord Europa e quello fatto in Italia. In Scandinavia la panna si ottiene dal latte, invece in Italia la panna viene soprattutto dal siero di latte e, perciò, può essere usata solo per essere trasformata in burro o ricotta.

I 15 panetti in laboratorio

A 18 anni di distanza dall’ultimo nostro test che bocciava la qualità del burro italiano in favore di quello straniero, il confronto su 15 panetti appena condotto e pubblicato nel numero in edicola del Salvagente – seppur non sempre con il massimo dei voti – la maggioranza del campione. E non sembra, questa volta, bocciare il made in Italy. Una classifica, però, in cui non mancano le brutte sorprese.

Ecco i campioni mandati in analisi

  • BIRAGHI BURRO SELEZIONE
  • CAMPO DEI FIORI BURRO FORMATO CASALINGO
  • CONAD
  • COOP
  • ESSELUNGA
  • GRANAROLO burro italiano
  • LAND (EUROSPIN)
  • LATTERIA BURRO (LIDL)
  • LATTERIA SORESINA
  • LURPAK CLASSICO
  • NUOVO PREALPI  A RIDOTTO CONTENUTO DI COLESTEROLO
  • OPTIMUS
  • PARMAREGGIO
  • SANTA LUCIA CLASSICO
  • VIPITENO BURRO DI QUALITA’

Il pregiato burro del Nord

Se è vero che il prodotto italiano non sfigura nelle nostre analisi, è anche vero che i cultori di questo alimento non mancano di esaltare le qualità di quello straniero. E non senza ragione: in Germania, in Austria e soprattutto in Scandinavia il burro più comune è quello ottenuto per centrifugazione: per separare la panna dal latte si utilizza una combinazione di energia centripeta e centrifuga. Un processo rapido ed efficace che permette di mantenere le qualità del latte usato e che dà una panna dolce (infatti è chiamata anche crema dolce). Quindi, se si parte da un ottimo latte (com’è in genere quello nord-europeo) si ottiene un burro altrettanto eccellente. La sequenza logica di produzione è: latte-burro-formaggio.

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E il nostro, succube del formaggio

L’italiano invece, è il burro da affioramento. Nonostante nell’immaginario gastronomico di molti la parola “affioramento” rimandi a verdi pascoli, malghe fiorite e burrificatori montanari con il cappello di feltro, questo burro ha una qualità inferiore, a parità di qualità del latte, rispetto a quello di centrifuga. Per più motivi. Il principale è che le condizioni con cui viene trattata la crema solitamente non sono ottimali: si inacidisce troppo perché il processo di affioramento è molto lento, ed effettuato spesso a temperature troppo elevate, con conseguente proliferazione di microorganismi indesiderati. Da qui la differenza qualitativa con quello estero. E se credete di riuscire facilmente a cogliere la differenza attraverso l’etichetta, vi sbagliate di grosso perché i produttori non sono obbligati ad indicare in etichetta il metodo di produzione. Alcuni lo fanno ma in maniera del tutto volontaria. Basta dare uno sguardo al nostro campione per capire le proporzioni: su 15 solo 3 indicano che si tratta di burro da centrifuga.

A questo punto la domanda è lecita: perché non ci specializziamo anche in Italia nella produzione di burro da centrifuga? In realtà, come dimostra il nostro campione, qualcuno già lo fa ma si tratta di una sparuta minoranza. La motivazione è economica, e molto seria: la produzione di burro italiano è fortemente condizionata dalla produzione di Grana Padano e di Parmigiano Reggiano. Questi formaggi utilizzano latte parzialmente scremato per affioramento della crema. La crema di latte viene separata in condizioni ottimali per la successiva caseificazione del latte parzialmente scremato. Queste condizioni di temperature e tempi però, producono una panna che non permette la preparazione di un burro di qualità. Insomma, la sequenza italiana è latte-formaggio-burro.

Insomma, affinché il burro sia di qualità occorre non solo che sia eccellente la materia prima ma occorre anche che la crema venga separata in modo corretto e funzionale all’utilizzo che se ne vuole fare. In parole povere, se voglio produrre burro di qualità dovrò trasportare il latte e separare la crema alle temperature ottimali per ottenere il burro migliore, che non sono quelle per ottenere il formaggio migliore.

Purtroppo l’affioramento è una fase insostituibile nel processo produttivo del formaggio tipo grana. Il latte per il Grana Padano deve essere conferito al caseificio a temperature non inferiori a 8 °C, con una temperatura di affioramento tra gli 8°C e i 20 °C per 5-10 ore. Per il Parmigiano il latte deve essere conferito ad una temperatura non inferiore ai 18 °C, mentre la temperatura media del latte in affioramento è variabile tra 12 °C e i 22 °C, mediamente di 16 °C per 10-12 ore. Queste due condizioni, ottimali per la produzione dei fiori all’occhiello della nostra industria casearia, non lo sono certo per la qualità finale della crema. In altre parole, dovendo scegliere tra ottenere un Grana o un Parmigiano di qualità e un burro eccellente, i produttori hanno scelto di proteggere la produzione dei due fiori all’occhiello del made in Italy, penalizzando il burro anche se, come dimostra la nostra prova organolettica, cercando bene tra gli scaffali è possibile trovare qualche “gioiellino”.

Da “grezzo” a “rifuso”

A questo problema se ne aggiunge un altro: nei comprensori di produzione dei formaggi Grana Padano e Parmigiano Reggiano i piccoli produttori spesso non sono in grado, per le loro modeste dimensioni, di rispettare le condizioni elementari batteriologiche e di refrigerazione per la trasformazione in burro, né tanto meno il trasporto a basse temperature della crema affiorata in un burrificio per la trasformazione. Accade allora che in loco la crema venga trasformata in quello che potremmo chiamare “burro grezzo”. Questo viene successivamente conferito a uno stabilimento, rifuso, ritrasformato per emulsione in panna, mescolato con crema di altra provenienza, e ritrasformato in burro.

È facile capire come questi passaggi inevitabilmente influenzino le qualità del prodotto finale. Inutile dire che il legislatore ha cercato di normare la produzione del burro ma il risultato è, come spesso accade, un compromesso tra l’esigenza di tutelare la produzione, la qualità del prodotto e quella di proteggere la salute dei consumatori. Il primo tentativo risale al 1956 e l’altro, più recente, al 1983 ma non si va oltre a una definizione di burro come prodotto ottenuto dalla crema ricavata dal latte di vacca o dal siero di latte di vacca e alla fissazione dei tenori massimi e minimi di grasso, acqua e solidi non lipidi.

Il test integrale su 15 panetti di burro venduti in Italia la trovate in edicola dal 25 settembre, o potete scaricarla nel nostro negozio digitale