Secondo diverse stime basate su dati FAO, ogni anno a livello globale oltre 150 miliardi di animali (tenendo conto anche della pesca) finiscono nel nostro ciclo produttivo alimentare, di questi almeno 80 miliardi passando per degli allevamenti intensivi. La grandezza di questo numero colpisce ancora di più se confrontata con la stima del Population Reference Bureau, secondo cui dalla comparsa dell’uomo sulla Terra a oggi sono vissuti in tutto circa 113 miliardi di esseri umani. Esiste un nesso tra questa esplosione della produzione zootecnica globale e la nascita di nuove epidemie, come la pandemia Covid-19?
2 milioni di morti l’anno
Secondo l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) “circa il 75 per cento delle nuove malattie che hanno colpito l’uomo negli ultimi dieci anni è stato trasmesso da animali o da prodotti di origine animale”. “Le malattie che sono trasmesse direttamente o indirettamente dagli animali, compresi quelli di allevamento, agli uomini si chiamano zoonosi”, spiega Valentina Rizzi, responsabile del team che si occupa di zoonosi per Efsa. “Soprattutto negli ultimi dieci anni la stragrande maggioranza delle nuove patologie dell’uomo ha avuto origine da animali o da alimenti di origine animale”.
Nel 2016 il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) ha pubblicato un rapporto (Frontiers 2016) che racconta un preoccupante aumento delle zoonosi negli ultimi anni, legato alla rapida distruzione degli ecosistemi, alla deforestazione e alla vendita illegale di specie selvatiche, e amplificato dall’intensificazione degli allevamenti e dai cambiamenti climatici. “Fino ad oggi le zoonosi hanno colpito le popolazioni più povere”, afferma Inger Andresen, direttore esecutivo di Unep. “Nel report del 2016 abbiamo dato dei numeri: circa 2 miliardi di persone colpite e circa 2 milioni di vittime l’anno, solo per quanto riguarda alcune zoonosi. E tutto questo prima della comparsa del Coronavirus”. Il motivo? Secondo il report: “Mai prima di oggi gli agenti patogeni hanno avuto così tante opportunità di passare da animali selvatici e in cattività alle persone”.
Deforestazione e mangimi
L’ipotesi più accreditata ad oggi sulla nascita dell’attuale pandemia di Covid riguarda un virus proveniente da animali selvatici, in particolare i pipistrelli “ferro di cavallo”. Nelle scorse settimane il WWF ha pubblicato il report “Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi – Tutelare la salute umana conservando la biodiversità”, che raccoglie una serie di studi scientifici che raccontano il diretto collegamento tra deforestazione e nascita di nuovi agenti patogeni proprio attraverso gli animali selvatici. “Tutte le volte che distruggiamo gli ecosistemi ci esponiamo a nuovi virus perché creiamo per loro condizioni straordinarie”, afferma Isabella Pratesi, responsabile foreste per WWF Italia. “Questo accade perché virus che prima erano tenuti a bada dagli ecosistemi come le foreste, all’improvviso hanno un’opportunità unica di lasciare le poche centinaia di scimmie o le poche migliaia di animali che parassitavano, per passare a quasi otto miliardi di esseri umani”.
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Secondo la FAO, almeno il 70 per cento della deforestazione globale è dovuta all’avanzata dell’agricoltura, in particolare (per l’80 per cento) di nuovi pascoli di bovini, di monocolture di soia e di piantagioni di palme da olio. Il ruolo della zootecnia è di primo piano non solo per l’aumento dei pascoli, ma anche per la soia (usata al 90 per cento per la produzione di mangimi per gli allevamenti) e per l’olio di palma (anch’esso usato in parte nella produzione di mangimi).
“Il legame tra deforestazione e nascita di nuovi virus è stato denunciato già in passato per altre epidemie da studi scientifici robusti”, afferma Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano. “Non è che le città si stanno espandendo dentro la foresta”, continua Vacchiano, “ma si espandono attività umane che stanno prendendo il posto di queste foreste tropicali. La coltivazione della soia, la coltivazione dell’olio di palma in Indonesia, la creazione di nuovi pascoli, sono tutte cose che mettono più a contatto l’uomo con questo genere di patogeni”.
Allevamenti intensivi, la Disneyland dei virus
Se da una parte l’iper-produzione animale è collegata alla distruzione degli ecosistemi per la produzione di mangimi, dall’altra la proliferazione di allevamenti intensivi sta creando condizioni sempre più rischiose per la nascita e la diffusione di nuove epidemie.
“Più noi consumatori chiediamo proteine animali, più il mercato risponde e aumenta la popolazione animale”, afferma Inger Andersen. “In genere i virus nascono in ambienti selvatici e sono trasmessi da uccelli selvatici, pipistrelli e altri vettori agli animali da allevamento. Questo in particolare succede in avicoltura e suinicoltura, ma può riguardare anche altri settori. Non possiamo negare che spesso le zoonosi prendono questa strada, ce lo dice la scienza”.
Secondo Luca Busani del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità “Il rischio è maggiore dove è maggiore la densità e la quantità degli animali, per il semplice motivo che una popolazione densa è un volano enorme per qualunque agente infettivo che riesca a entrare in questa popolazione”. Secondo Busani l’origine dei nuovi virus è legata per la grande maggioranza agli animali selvatici, ma gli allevamenti intensivi rappresentano un rischio, perché nonostante le misure di biosicurezza, “gli agenti patogeni possono comunque entrare”. “Ogni allevamento ha un’enorme uniformità”, continua il ricercatore. “Se lei pensa all’allevamento avicolo, i broiler sono tutti uguali. La base genetica è estremamente limitata e negli allevamenti ci sono animali tutti della stessa età e dello stesso sesso. Di conseguenza un agente patogeno che entra lì è praticamente a Disneyland, perché trova popolazioni tutte uguali dove è facilissimo per lui diffondersi”.
La circolazione di virus negli allevamenti intensivi rappresenta una minaccia anche dal punto di vista delle mutazioni, uno dei fattori di rischio maggiori perché legato al salto di specie e alla difficoltà di reazione dei sistemi immunitari negli animali e nell’uomo. “Il coronavirus con cui abbiamo a che fare in questi giorni è mutageno, proprio come tutti i coronavirus sono mutageni”, afferma Antonio Limone, medico veterinario dell’Istituto zooprofilattico di Portici. “Noi medici veterinari li conosciamo bene perché li studiamo dal 1937, ne abbiamo trovati ben 26 sierotipi nei polli”.
I mega allevamenti cinesi
A settembre del 2019 la multinazionale Danish Crown, uno dei leader mondiali per la produzione di carne suina, ha inaugurato un nuovo allevamento intensivo in Cina, a 100 km da Shangai, con una capacità produttiva di 14mila tonnellate l’anno. “Costruire un allevamento intensivo per servire una sola città può sembrare estremo”, ha detto all’inaugurazione Niels Knudsen, responsabile per la Cina di Danish Crown. “Ma a Shangai vivono oltre 24 milioni di persone, e altre 80 milioni vivono nel raggio di 200 km dall’allevamento. Parliamo dell’equivalente della popolazione di tutta la Germania”.
Il caso di Danish Crown non è isolato: l’aumento vertiginoso del consumo pro capite di carne in Cina e in altri Paesi asiatici e del Sud America (ancora molto inferiore a quello degli Stati Uniti o dell’Europa) sta spingendo la nascita e l’evoluzione di nuovi allevamenti intensivi in tutto il pianeta. Secondo le previsioni dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) entro il 2028 la produzione globale di carne è destinata ad aumentare di altre 40 milioni di tonnellate, raggiungendo i 364 milioni. Allo stesso modo, nell’attuale trend, è destinata a crescere la domanda di cereali e semi oleosi (soia) per la produzione dei mangimi, e di conseguenza la pressione sulle foreste tropicali.